12 dicembre 1969 – Strage di Piazza Fontana. Il vero volto dello Stato

da A-Rivista Anarchica, anno 42, n.8, novembre 2012

La strage e la nebbia

«Erano le 16.30 circa di venerdì 12 dicembre 1969.
Nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano si stavano svolgendo per antica consuetudine le contrattazioni dei fittavoli, dei coltivatori diretti e dei vari imprenditori agricoli ivi convenuti dalla provincia per discutere i loro affari commerciali ed attendere al compimento delle operazioni bancarie presso gli sportelli, allorché vi echeggiava il fragore dell’esplosione di un ordigno di elevata potenza.
Ai primi accorsi da Piazza Fontana, che dà accesso al salone, l’interno della Banca offriva subito dopo un raccapricciante spettacolo: sul pavimento del salone, che recava al centro un ampio squarcio, giacevano, fra calcinacci e resti di suppellettili, vari corpi senza vita ed orrendamente mutilati, mentre persone sanguinanti urlavano il loro terrore […]. Quattordici erano i morti (aumentati a sedici entro il 2 gennaio con il decesso dei feriti Scaglia Angelo e Galatioto Calogero, morti per le gravi ferite riportate) […]. Gravemente feriti restavano all’interno della sede bancaria altri quarantacinque clienti.
Vari feriti contava anche il personale della banca: tredici elementi che lavoravano al pianterreno nel salone; quattordici al primo piano, cinque al secondo piano; uno al terzo.
Gli effetti dell’esplosione riguardavano anche l’esterno dell’istituto. Riportavano, infatti, lesioni personali sette persone che si trovavano sul marciapiede di Piazza Fontana e due persone nell’interno del ristorante “L’Angelo” sito dietro l’edificio bancario».
Così i giudici della Corte d’Assise di Catanzaro, nella sentenza del 23 febbraio 1979, descrissero lo scenario di quella sera del 1969, che ci sembra oggi così lontana. Dal 1979 al 2005 si sono svolti ben nove processi per tentare di giungere alla verità, ma non si è arrivati a una verità giudiziaria.
Era dalla fine della seconda guerra mondiale che non accadeva un simile massacro di cittadini inermi, intenti in una normale attività quotidiana nella seconda città del paese.
Il 15 dicembre, quattordici bare sfilarono tra le vie di Milano per dare l’ultimo saluto a familiari, amici e cittadini accorsi in Piazza Duomo. Tutta la città si tolse il cappello man mano che il corteo funebre avanzava. C’erano studenti, pensionati, impiegati, operai usciti in anticipo dalle fabbriche e donne pie che veloci si facevano il segno della croce.
A organizzare la strage ed altri attentati fu una cellula veneta, operante a Padova, di «Ordine Nuovo», un’organizzazione estremista di stampo neonazista. Franco Freda e Giovanni Ventura, appartenenti alla cellula terroristica padovana, non vennero condannati per la strage di Piazza Fontana, nonostante l’inchiesta del giudice Salvini, negli anni Novanta, abbia portato alla luce nuove prove a loro carico. I due imputati erano stati dichiarati responsabili della strage e condannati all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Catanzaro nel 1979. Tale verdetto venne ribaltato in appello nel 1981: Freda e Ventura furono assolti per insufficienza di prove dall’accusa di strage. Il 10 giugno 1982 la Corte di Cassazione annullò la sentenza ma nel 1985 a Bari la Corte d’Assise d’Appello dichiarò nuovamente l’assoluzione degli imputati per insufficienza di prove. Questa sentenza fu confermata definitivamente nel 1987 dalla Cassazione.
Il principio ne bis in idem, ovvero che le stesse persone non possono essere giudicate due volte per lo stesso reato quando sono state assolte con una sentenza passata in giudicato, ha consentito a Freda e Ventura di rimanere impuniti.
Vennero accertati i depistaggi portati avanti da alcuni membri dei servizi segreti. Furono condannati Gianadelio Maletti, dal 1971 al 1975 capo dell’ufficio D del Sid (Servizio Informazioni della Difesa) e Antonio Labruna, ufficiale dei carabinieri in forza al Sid, per l’azione di depistaggio e occultamento di prove.
La strada per la verità fu ulteriormente intralciata dal continuo spostamento del processo che riguardava la strage milanese tra le varie procure italiane e la mancata unificazione con processi che interessavano questioni ad essa collegate causando un continuo andirivieni di materiale che dilaterà i tempi dei processi.
L’espressione «strage di stato», utilizzata per indicare l’attentato del 12 dicembre 1969, deriva dal fatto che ci fu una collusione tra alcuni settori degli apparati statali e gli attentatori.
L’obbiettivo di coloro che compirono la strage era cercare di sovvertire l’ordine pubblico, in modo da creare le condizioni per una involuzione autoritaria della politica italiana. A tale scopo bisognava fare attribuire la strage all’estrema sinistra in modo che l’opinione pubblica accettasse una vasta azione repressiva.
La nebbia di Milano non ha ancora restituito la pace a quelle famiglie che aspettano di sentire i nomi di coloro che progettarono e attuarono questa carneficina che si portò via i loro cari. Forse nomi sentiti troppe volte, ma mai accompagnati dall’aggettivo «colpevole».

La pista anarchica

Cesare Vurchio e Giuseppe Pinelli al Circolo
anarchico “Ponte della Ghisolfa”

La stessa sera degli attentati il prefetto di Milano, Libero Mazza, inviò al presidente del consiglio, Mariano Rumor, un fonogramma: «Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarcoidi aut comunque frange estremiste. Est già iniziata […] vigorosa azione rivolta at identificazione et arresto responsabili».

Il cortile interno della Questura,
la freccia in alto indica
la finestra da cui è volato
Giuseppe Pinelli

L’ufficio politico della Questura di Milano aveva già una pista da seguire: nell’arco delle ventiquattro ore successive alla strage transitarono nella questura milanese più di 300 persone, soprattutto anarchici ed extraparlamentari di sinistra.
Paolo Finzi quel 12 dicembre era a letto con la febbre. Aveva appena compiuto 18 anni e studiava al liceo Giosuè Carducci dove militava in un gruppo anarchico. Poco prima di mezzanotte suonarono alla porta: era la polizia. Agli allibiti genitori gli agenti di pubblica sicurezza spiegarono che il ragazzo doveva essere portato in questura perché era tra i principali sospettati per la strage di Piazza Fontana. Arrivato negli uffici della polizia politica vide che nello stanzone del quarto piano di via Fatebenefratelli vi erano decine di fermati appartenenti all’estrema sinistra e solo quattro fascisti. Lì vide anche Giuseppe Pinelli, uno dei veterani del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, e Virgilio Galassi. Quest’ultimo era stato nel movimento libertario nell’immediato dopoguerra, ma nel 1969 non era più un militante attivo. Il suo fermo era dovuto soltanto al fatto che era un funzionario della Banca Commerciale.
Finiti gli accertamenti tutti i fermati vennero trasferiti nelle camere di sicurezza della questura. Nel tardo pomeriggio del 13 dicembre quasi tutti furono rilasciati. Ma la polizia nei giorni seguenti continuò con i fermi.

La squadra politica della questura milanese.
Da sinistra a destra: Vincenzo Putomatti, il vice-
dirigente Beniamino Zagari, Antonio Allegra,
Marcello Giancristofaro e Luigi Calabresi.
Non compaiono nella foto gli altri componenti:
Antonio Pagnozzi, Edmondo Lavitola,
Raffaele Valentini e Pasquale Diogene

Fausto Luperti aveva 26 anni e militava nel partito marxista-leninista italiano. La mattina del 13 dicembre i membri della comune dove viveva furono bruscamente svegliati dal bussare della polizia. Condotto in Questura, dopo l’interrogatorio, fu trasferito al carcere di San Vittore, dove restò fino al 29 Dicembre. Con lui in carcere anche Pasquale Valitutti, un giovane anarchico, e Andrea Valcarenghi, animatore del gruppo Onda verde.
Il 15 dicembre il «Corriere della Sera» intitolò in prima pagina: «Ventisette estremisti trattenuti a San Vittore. Appartengono in maggioranza ai gruppi neo-anarchici collegati con organizzazioni internazionali».
Alcuni giornalisti che concordavano con la linea ufficiale della Questura ricordarono l’attentato dinamitardo messo in atto dagli anarchici al Teatro Diana il 23 Marzo del 1921 e lo compararono con quello alla Banca dell’Agricoltura.
In quella giornata del 1921 un gruppo di anarchici milanesi, con l’obbiettivo di colpire Giovanni Gasti, questore di Milano, fece esplodere un potentissimo ordigno posizionato all’esterno di una porta laterale del Teatro Diana. La deflagrazione squarciò la parete, investì le prime file della platea e la fossa degli orchestrali: causò ventuno morti e più di centocinquanta feriti. Gasti non fu colpito dall’esplosione. Gli autori del gesto, da tempo esasperati per la ingiusta detenzione dei redattori del quotidiano «Umanità Nova», Borghi, Malatesta e Quaglino, volevano richiamare l’attenzione sulle condizioni di salute dei tre detenuti. Costoro, infatti, nonostante l’avanzata età di Errico Malatesta, avevano appena iniziato uno sciopero della fame a oltranza, per protestare contro le lungaggini dei tempi processuali. I colpevoli della strage furono condannati nel 1922: nella sentenza anche due ergastoli.
Naturalmente, invece di far nascere nell’opinione pubblica un qualsiasi moto di solidarietà nei confronti del vecchio anarchico e dei suoi compagni di galera, il sanguinoso attentato generò orrore e scatenò nuove accuse e attacchi a tutto il movimento anarchico.
Nel 1969, il ricordo dei fatti di quarantotto anni prima aumentò la convinzione che i principali sostenitori della «filosofia della bomba», fossero ancora e sempre gli anarchici. Ora il Paese aspettava solo il «mostro» da sbattere in prima pagina.

Pietro Valpreda

Martedì 16 dicembre Bruno Vespa, dalla questura di Roma, in diretta, durante il telegiornale della sera, diede la notizia dell’arresto di Pietro Valpreda, avvenuto il giorno prima: «Pietro Valpreda è colpevole della strage di Milano e degli attentati di Roma. La conferma è arrivata qualche minuto fa dalla Questura di Roma».
Valpreda era un anarchico di 37 anni, milanese con la passione per il ballo e qualche precedente penale. La sua militanza nei gruppi di Milano era saltuaria, ma quando era in città andava a trovare gli anarchici del circolo «Sacco e Vanzetti» e poi, dal maggio 1968, del circolo «Ponte della Ghisolfa», nuova sede degli anarchici milanesi.
Agli inizi del 1969 si trasferì a Roma. Lì frequentò il circolo Bakunin, formato da gruppi aderenti alla FAI (Federazione anarchica italiana) ma in seguito ad alcune divergenze se ne staccò e insieme ad altri (Mario Merlino, Roberto Mander, Emilio Borghese, Roberto Gargamelli, Enrico Di Cola) fondò il circolo «22 Marzo», in ricordo del giorno dell’occupazione, nel 1968, dell’Università di Nanterre. Per sbarcare il lunario aveva aperto un negozio di artigianato dove fabbricava lampade Liberty, gioielli e collane.
Valpreda si trovava a Milano dalle sette del mattino di venerdì 12 dicembre. Era partito da Roma la sera prima, perché convocato dal giudice Amati, lo stesso che stava indagando sulle bombe del 25 aprile, a causa di uno scritto anticlericale. Il 15 dicembre si recò nello studio del suo avvocato difensore accompagnato dalla prozia, Rachele Torri, e insieme raggiunsero il Palazzo di giustizia.
Intorno alle 11:30 Valpreda lasciò lo studio del giudice. Appena chiusa la porta alle sue spalle fu arrestato e condotto in Questura; da qualche parte, in qualche ufficio, c’era ancora Giuseppe Pinelli. Al funzionario che gli chiese come avesse trascorso la giornata del 12 dicembre, Valpreda rispose di essere stato a letto con l’influenza, a casa della prozia.
Al termine del breve interrogatorio Valpreda fu trasferito alla Questura di Roma, dove fu sottoposto ad altri interrogatori. Nel bel mezzo della notte dovette seguire i poliziotti in un campo sulla via Tiburtina a cercare un deposito di esplosivo ma tutto ciò che trovarono fu una buca vuota. La perquisizione avvenne perché alcuni componenti del circolo «22 Marzo» avevano fatto confidenze, ammissioni e negazioni, ma alla fine il deposito di esplosivo degli anarchici non si trovò.
Il primo a fornire elementi contro i suoi compagni fu Mario Merlino. Laureato in filosofia, 25 anni, figlio di un funzionario del Vaticano, giunse al circolo Bakunin poco dopo Valpreda.
Merlino, quando aveva 18 anni, aveva iniziato la sua militanza politica nell’estrema destra, in Avanguardia Nazionale, guidata da Stefano Delle Chiaie, e aveva stretto rapporti anche con Pino Rauti e con il deputato missino Giulio Caradonna. Merlino aveva anche partecipato agli scontri del 17 marzo 1968 contro gli studenti di sinistra che occupavano la facoltà di lettere dell’Università La Sapienza di Roma. Nell’aprile dello stesso anno aveva partecipato al viaggio in Grecia organizzato dalla lega degli studenti greci fascisti in Italia (ESESI) con la collaborazione di Rauti e Delle Chiaie.
Tornato da questo viaggio avvenne la sua conversione politica, o forse così volle far credere. Cominciò a vestirsi secondo gli schemi dell’estrema sinistra, si fece crescere barba e baffi e iniziò a frequentare gruppi della sinistra extraparlamentare.

Valpreda il 27 Novembre 1969 aveva scritto una lettera al suo avvocato nella quale sosteneva che nel gruppo era sicuramente presente una spia, perché si era potuto rendere conto che la polizia era a conoscenza dei loro spostamenti e dei discorsi che si facevano al circolo. La sensazione era esatta, perché quello che gli altri membri del «22 Marzo» chiamavano «compagno Andrea» in realtà si chiamava Salvatore Ippolito ed era un agente di pubblica sicurezza incaricato di infiltrarsi tra gli anarchici romani.
Il piccolo gruppo di Valpreda conteneva ben tre informatori: Merlino, che informava Delle Chiaie, Ippolito, che informava il suo superiore in Questura, il commissario Domenico Spinella, e Stefano Serpieri, che frequentava solo saltuariamente il circolo, ma era anche lui un estremista di destra e informatore del Sid.
L’elemento fondamentale per accusare Valpreda della strage, comunque, non fu fornito da questi «informatori» ma dalla testimonianza del tassista Cornelio Rolandi, che si disse sicuro di aver trasportato chi mise la bomba esplosa alla banca.
Rolandi raccontò che, intorno alle 16:00 del 12 dicembre, mentre era fermo a bordo del suo taxi in Piazza Beccaria in attesa di clienti, gli si fece incontro un uomo che usciva dalla galleria del Corso. L’uomo chiese di essere accompagnato in Piazza Fontana, nonostante il tassista gli avesse fatto notare che la banca era molto vicina e più facilmente raggiungibile a piedi. Arrivato in piazza lo sconosciuto scese dall’auto, entrò in banca e tornò dopo un minuto al massimo, senza la borsa che aveva con sé quando era salito sul taxi.
Intorno alle 13:30 del 16 Dicembre a Valpreda, trasferito nella notte da Milano a Roma, fu comunicato che doveva sottoporsi ad un confronto.
Al Palazzo di Giustizia di Roma Rolandi individuò in Pietro Valpreda, tra cinque persone schierate davanti a lui, il passeggero salito a Piazza Beccaria. Ma il questore di Milano, Guida, nel suo ufficio, aveva già mostrato a Rolandi una foto di Valpreda e gli aveva chiesto se riconosceva l’uomo da lui trasportato. Il comportamento di Guida era di rilevante gravità. Quando fu chiamato a spiegarne le ragioni rispose dicendo «di nulla ricordare in ordine a tali circostanze».
Dopo il riconoscimento le autorità affermarono di aver preso colui che aveva messo la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Valpreda fu poi scarcerato il 30 dicembre 1972 grazie a una legge, varata apposta dal Parlamento, che permetteva di rimettere in libertà provvisoria anche imputati per reati che prevedevano l’emissione del mandato di cattura obbligatorio.

Il volo di Pinelli

Tra i militanti dell’estrema sinistra fermati la sera del 12 dicembre c’era Giuseppe Pinelli.
Pinelli era un esponente di spicco del movimento anarchico milanese e uno dei principali animatori del Circolo anarchico «Ponte della Ghisolfa». Era membro attivo della «Croce nera», organismo creato nell’aprile 1969, sull’esempio dell’inglese Anarchist Black Cross, per aiutare gli anarchici in carcere.

La sede anarchica di via Scaldasole

Pinelli faceva il ferroviere. La mattina del 12 dicembre era rientrato a casa alle 6:00 dopo aver fatto il turno di notte, come manovratore allo scalo della stazione di Porta Garibaldi. La moglie Licia si era svegliata un’ora dopo, aveva accompagnato le figlie a scuola ed era andata a fare la spesa. Verso le 11:00 stava facendo le pulizie quando arrivò a casa un conoscente del marito che a lei piaceva poco: Nino Sottosanti, personaggio ambiguo, amico di estremisti di destra, ex volontario della legione straniera, ammiratore di Benito Mussolini e conosciuto nell’ambiente come «Nino il fascista». Licia Pinelli uscì poi per andare a prendere le figlie a scuola. Quando rientrò trovò il marito che parlava con Sottosanti di Tito Pulsinelli, che con altri giovani anarchici era in prigione per gli attentati del 25 Aprile.
Sottosanti poteva fornire un alibi a Pulsinelli. L’uomo si era infatuato del giovane anarchico e la notte dell’attentato l’avevano passata insieme.
Pinelli staccò per Sottosanti un assegno di 15.000 lire come rimborso delle spese di viaggio sostenute per venire a Milano da Piazza Armerina e testimoniare a favore di Pulsinelli. I due bevvero poi un caffè in un bar poco lontano, e Sottosanti se ne andò per riscuotere l’assegno.
Alcuni avventori del bar, Mario Magni, Mario Pozzi, Luigi Palombino e Mario Stracchi, sostennero che Pinelli aveva giocato a carte con loro dalle 15-15:30 fino alle 17-17:30, confermando l’alibi fornito poi da Pinelli alla Polizia. Il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio, nella sentenza del 27 ottobre 1975, sostenne che i testimoni si erano confusi con il giorno precedente.
Comunque sia, tra le 17:00 e le 18:00 Pinelli si recò al circolo Ponte della Ghisolfa, in Piazzale Lugano 31. Lì incontrò Ivan Guarnieri e altri due giovani anarchici, Ester Bartoli e Paolo Stefani.

La sede anarchica del Ponte della Ghisolfa

Poco prima delle 19:00, in sella al suo motorino Benelli da 48 cc., Pinelli arrivò al circolo di via Scaldasole, una sede anarchica aperta da poco, in un seminterrato di un antico caseggiato fatiscente, vicino a Porta Ticinese: doveva incontrarsi con Sergio Ardau per aiutarlo a fare qualche lavoretto di restauro. Ma quando Pinelli arrivò, Ardau non era solo: c’erano tre poliziotti guidati dal commissario della squadra politica Luigi Calabresi, che si rivolse a Pinelli dicendogli di seguirli in questura con il suo motorino.
Arrivato in questura, Pinelli fu interrogato una prima volta intorno a mezzanotte.
Sabato 13 dicembre 1969 Ardau fu trasferito al carcere di San Vittore, mentre Pinelli restò in questura. Entro le 19:00 di domenica 14 dicembre la polizia avrebbe dovuto decidere la sua posizione. Il fermo di polizia poteva protrarsi fino a quarantotto ore a partire dal momento in cui veniva notificato. Oltre i due giorni il fermato doveva o essere trasferito in carcere o rimesso in libertà.
Pinelli, invece, restò in questura fino alla mezzanotte tra il 15 e il 16 dicembre, quando precipitò da una finestra del quarto piano di via Fatebenefratelli: il suo fu dunque un fermo illegale.
La mattina del 14 dicembre un agente telefonò a casa di Pinelli dicendo alla moglie di comunicare alle ferrovie che il marito era malato.

Milano, 20 dicembre 1969
I funerali di Giuseppe Pinelli

Alle 9:30 di lunedì 15 l’anarchico ricevette una visita dalla madre, Rosa Malacarne, che lo trovò tranquillo.
Ma verso le 14:30 dello stesso giorno la moglie Licia ricevette un’altra telefonata dall’ufficio politico con la quale le si chiedeva di dire alle ferrovie che il marito era fermato in attesa di accertamenti. Il clima si faceva più pesante: si cercava di intimidire Pinelli minacciandolo indirettamente di fargli perdere il posto di lavoro.
Alle 22:30 lo stesso Calabresi telefonò per chiedere il libretto chilometrico, il documento su cui venivano annotati i viaggi di ogni ferroviere. I poliziotti cercavano di coinvolgerlo negli attentati ai treni della notte tra l’8 e il 9 agosto.
Gli interrogatori miravano a trovare, attraverso Pinelli, un collegamento tra gli attentati del 12 dicembre e la precedente catena di atti terroristici. Per il suo ruolo centrale al circolo anarchico e per i contatti che intratteneva non solo nell’area anarchica, ma anche con numerosi esponenti della nuova sinistra, gli inquirenti credevano che Pinelli rappresentasse un tassello importante nelle indagini.
L’ultimo interrogatorio di Pinelli avvenne nell’ufficio di Calabresi intorno alle 19:00 del 15 dicembre, secondo la ricostruzione del giudice D’Ambrosio.

Licia Pinelli

Un punto su cui insistettero gli interrogatori era il rapporto tra Pinelli e Valpreda, soprattutto dopo che quest’ultimo era stato fermato e trasferito a Roma.

Il processo in Pretura a Roma

Valpreda non faceva parte del gruppo Ponte della Ghisolfa, o almeno non più. Era stato proprio Pinelli a buttarlo fuori dal circolo.
Pinelli stesso fece mettere a verbale: «La sera del 7 o dell’8 ottobre scorso […] dissi a Valpreda che non lo stimo in quanto nella zona di Brera avevo raccolto delle voci abbastanza strane che lo davano come autore di vari attentati in quanto lui stesso si era vantato della cosa. Il Valpreda negò di essersi vantato e disse di essere venuto a Milano anche per sfatare queste dicerie». I rapporti tra Pinelli e Valpreda si erano raffreddati completamente.
Ma la polizia cercò di insinuare in Pinelli il dubbio che il ballerino potesse essere colpevole e addirittura Calabresi, nell’ultimo interrogatorio, a quanto parrebbe esordì dicendo che Valpreda aveva confessato.

Rachele Torri, prozia di Pietro Valpreda

Era la mezzanotte del 15 dicembre, il cronista dell’«Unità» Aldo Palumbo aveva appena lasciato la sala stampa della questura. Era nel cortile quando sentì tre tonfi: qualcosa che sbatteva contro i cornicioni dei vari piani. Accorse e vide un uomo per terra nell’aiuola. Era Giuseppe Pinelli, ma il cronista ancora non lo sapeva, nessuno ancora lo sapeva. Subito corse a chiamare agenti e colleghi.
La giornalista Camilla Cederna, dopo essere stata avvisata del fatto, si recò all’ospedale Fatebenefratelli, dove l’uomo era stato trasportato. Giunta sul posto trovò un gruppetto di poliziotti che non la lasciarono passare. Ad un tratto gli si fece incontro il medico capoturno, Nazzareno Fiorenzano, che riferì che oramai per Pinelli non c’era niente da fare.
Poco dopo in questura fu organizzata una conferenza stampa per spiegare ai giornalisti la dinamica dei fatti, ma nessuna autorità si preoccupò di avvisare la famiglia di Giuseppe Pinelli.
La moglie Licia era già a letto e non sapeva ancora cosa era successo al marito. All’una e cinque di quella stessa notte le suonarono al campanello. Erano due giornalisti del «Corriere della Sera», i quali le dissero che doveva essere successa una disgrazia a suo marito.
La donna si attaccò al telefono e chiamò la questura per avere notizie. Le rispose lo stesso Calabresi che le riferì che suo marito si trovava all’ospedale Fatebenefratelli. Chiedendo perché non l’avessero avvisata, si sentì rispondere: «Ma sa, signora, abbiamo molto da fare».
La mamma del ferroviere, Rosa, si precipitò all’ospedale. Era pieno di poliziotti, tutti correvano freneticamente e nessuno le diede retta.
Intanto nel palazzone della questura milanese si era tenuta la conferenza stampa che aveva impegnato così tanto i questurini da non lasciare tempo nemmeno per una telefonata ai parenti di Pinelli.
Erano presenti il commissario Luigi Calabresi, il tenente dei carabinieri Savino Lograno, il questore Marcello Guida, già direttore del confinario fascista di Ventotene, e il capo dell’ufficio politico Antonino Allegra.

Licia Pinelli durante un’udienza del processo
Calabresi / “Lotta Continua”

I giornalisti presenti cominciarono a far domande su Pinelli e su come si erano svolti i fatti e il questore rispose che Pinelli era fortemente indiziato di concorso in strage, che il suo alibi era crollato, che il ferroviere anarchico, vistosi perduto, si era suicidato, e che il suicidio era una specie di autoaccusa. Nessuno dei presenti smentì le parole del questore.
Qualcuno chiese se era fermato o arrestato. La risposta fu che il suo era un fermo di polizia convalidato dall’autorità giudiziaria. Ma anche il magistrato incaricato delle indagini, Ugo Paolillo, non ne sapeva nulla.
Il mattino dopo sui giornali comparve la versione della questura: Pinelli si era lanciato intorno alle 23:50, nell’ultimo interrogatorio il dottor Calabresi gli aveva rivolto contestazioni piuttosto precise e lui era sbiancato in volto, il commissario se n’era andato per riferire ad Allegra e, nonostante i cinque uomini presenti nella stanza, Pinelli aveva spiccato un balzo felino buttandosi nel vuoto.
L’ufficio dove Pinelli fu interrogato non era molto grande. Misurava 3,56 metri per 4,40 metri. La porta si apriva su una delle due pareti più corte e la finestra-balcone (che misurava 1,50 metri) s’apriva sul lato opposto. La porta-finestra, munita di una balaustra in ferro a filo di muro, esterna ai vetri, alta 92 cm, s’apriva all’interno. L’arredamento del locale era composto da una scrivania, un tavolino porta telefono, uno scaffale per la macchina da scrivere, uno scaffale porta riviste, uno schedario, un termosifone, un attaccapanni, una poltroncina e quattro sedie.
Al momento del «balzo» erano presenti il tenente dei carabinieri Savino Lograno, tra la porta e la scrivania, i due sottufficiali Carlo Mainardi e Vito Panessa, vicino alla finestra, Giuseppe Caracuta alla macchina da scrivere e Pietro Mucilli accanto ad un mobiletto. Calabresi si era momentaneamente assentato per portare un verbale ad Allegra.
Nell’ufficio c’erano quindi cinque persone, oltre a Pinelli, e nessuno era riuscito a fermare il suo «balzo» nonostante lo spazio ridotto e ingombro di mobili.

Il commissario Luigi Calabresi durante il processo
da lui intentato contro “Lotta Continua”

La tesi del suicidio si basava su due motivi: che il suo alibi fosse miseramente caduto e che Pinelli fosse crollato psicologicamente alla notizia della confessione di Valpreda. Ma entrambe le motivazioni erano facilmente confutabili. L’alibi non era crollato in quanto diversi testimoni avevano confermato la sua versione. Se poi avevano detto che Valpreda era colpevole, non era certo il tipo di notizia che potesse sconvolgere Pinelli in quanto i rapporti tra i due, come già detto, non erano dei migliori.
Ci sono poi molti particolari tecnici che riguardano il modo di cadere di un suicida che si getta dall’alto. Non comparivano graffi sulle mani, che nel volo pare si aggrappino inconsapevolmente a qualsiasi sporgenza. Non si avvertirono urla, che nella maggior parte dei casi escono involontariamente dalla gola del suicida. Anche il modo di cadere era inusuale perché il corpo non seguì la traiettoria curva dovuta allo slancio indispensabile a chi si butta dall’alto. Fu invece un cadere che produsse tre tonfi sordi: uno contro il primo cornicione, l’altro contro il secondo e infine lo schianto al suolo. Aldo Palumbo disse di aver pensato che stessero buttando uno scatolone dalla finestra. Quindi l’impressione è che a cadere sia stato un corpo già privo di sensi. Gli stessi medici furono stupiti che non vi fosse sangue che fuoriusciva dal naso e dalla bocca.
A questo punto diversi quotidiani si sentono autorizzati ad avvalorare le tesi più diverse. Una fu quella dell’incidente sul lavoro, ovvero che i poliziotti, entrati nella fase calda dell’interrogatorio, avessero picchiato l’anarchico per costringerlo a dire qualcosa.
Sull’«Avanti!» comparve la tesi che il ferroviere, colpito da un fatale colpo di karatè, si rialzasse per prendere una boccata d’aria e precipitasse nel vuoto. Un’altra ipotesi, suggerita dall’agenzia «In», fu che Pinelli, subito dopo l’interrogatorio di Calabresi, fosse stato stroncato da un infarto.

Scritte comparse allora sui muri di Milano dimostravano che la teoria del suicidio non era più credibile: «Calabresi assassino», «Pinelli innocente. Hanno suicidato Pinelli».
Alcuni testimoni affermarono di aver sentito Calabresi minacciare Pinelli già in altre occasioni. Una volta, insieme al responsabile della squadra politica Allegra, gli avrebbe detto: «Noi possiamo metterti dentro anche se attraversi la strada con il rosso».
In settembre, durante un picchettaggio davanti a San Vittore per chiedere la liberazione degli anarchici accusati delle bombe del 25 Aprile, Calabresi si avvicinò a Pinelli e dopo uno scambio di battute avrebbe esclamato: «Te la faremo pagare», ricordò Cesare Vurchio.
Valitutti sostenne inoltre di aver sentito Calabresi dare ordini affinché Pinelli non fosse lasciato dormire e fosse tenuto sotto pressione tutta la notte.
Il 27 dicembre la madre e la vedova, quest’ultima anche a nome delle due figlie, presentarono un atto di denuncia e di querela nei confronti del questore Marcello Guida per diffamazione continua aggravata dall’abuso delle pubbliche funzioni. Sotto accusa frasi come: «È stato coerente con i suoi principi. Se fossi stato in lui avrei fatto la stessa cosa. Quando ha visto che la legge lo aveva preso si è tolto la vita»; «è stato come un cupio dissolvi … Non vorrete pensare che l’abbiamo gettato noi …».
Ma il giudice Amati depositò un verbale di archiviazione accogliendo le richieste del pubblico ministero Giovanni Caizzi. Contro questa decisione si schierarono uomini di cultura ed esponenti politici democratici con un appello pubblicato sull’«Espresso». In esso si sollecitava la ripresa di un aperto dibattito su tutta la questione.
Amati rese nota la sua decisione il primo giorno di un lungo sciopero dei giornali, una settimana di silenzio della stampa. A sciopero ultimato la notizia uscì in cinque righe: una notizia stantia, non più di attualità.

Sui muri di Milano comparvero nuove scritte contro la polizia. Addirittura la targhe stradali in via Brera erano state sostituite: da una parte si leggeva via Valpreda e dall’altra via Pinelli.
Il giudice Amati nel decreto d’archiviazione sul caso Pinelli sostenne che non esistevano gli estremi per promuovere l’azione penale. Convalidò la tesi della polizia basandosi esclusivamente sulla deposizione dei suoi funzionari. Ma nel decreto di archiviazione comparivano delle incongruenze. Le prime affermazioni indicavano mezzanotte come orario dell’interrogatorio, l’ufficio di Calabresi il luogo, «Valpreda ha parlato!» l’annuncio di Calabresi, «È la fine dell’anarchia!» la risposta di Pinelli, che con uno «scatto felino» si sarebbe lanciato dalla finestra. Ora, a distanza di sei mesi, molti punti cambiavano: la frase su Valpreda, dichiarava Calabresi, lui l’aveva detta a Pinelli verso le 20:00; sentendola l’anarchico si era turbato ed era uscito in quella esclamazione, ma non si era buttato.
Il brigadiere Vito Panessa, dopo due deposizioni contraddittorie, interrogato una terza volta per chiarire i fatti disse: «Ho fatto sì certe ammissioni, naturalmente le confermo, però adesso le cambio».
La polizia sostenne che al momento del volo Pinelli era in perfette condizioni fisiche. Il tenente Lograno, che si trovava nell’ufficio di Calabresi, disse di aver udito l’anarchico, dopo il volo dal quarto piano, esclamare: «Ah, che dolore! Sto male, sto male!». Invece i giornalisti accorsi nel cortile della questura affermarono che Pinelli rantolava senza proferire parola.
Queste contraddizioni non furono prese in considerazione da Amati.

Al caso Pinelli si intrecciò la vicenda del settimanale «Lotta continua». Dal 14 Gennaio 1970 il settimanale pubblicò vignette o articoli che riguardavano il commissario Calabresi. Ogni volta lo accusavano di aver scaraventato l’anarchico dal quarto piano di via Fatebenefratelli.
Nonostante le continue provocazioni il commissario non querelò subito il giornale. Calabresi non ne aveva nessuna intenzione perché meno si esponeva e meglio era oppure stava solo temporeggiando perché nell’aria vi era la notizia dell’archiviazione dell’istruttoria?
In tal caso Calabresi avrebbe potuto presentarsi al processo praticamente già assolto dall’imputazione di omicidio.
Il 20 Aprile Calabresi si decise a sporgere denuncia per diffamazione continuata ed aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato, contro Pio Baldelli, il direttore responsabile di «Lotta continua».
L’intenzione di Lotta continua era chiara: trasformare il processo per diffamazione in un’istruttoria pubblica sul caso Pinelli. I legali di Baldelli, Marcello Gentili e Bianca Guidetti Serra, erano decisi a chiedere al tribunale di acquisire tutte le prove, sentire testimoni e raccogliere elementi necessari a chiarire la morte del ferroviere.
Il 9 ottobre 1970 si aprì il processo presieduto dal giudice Biotti.
Quella mattina, all’interno del palazzo di giustizia, un carabiniere strappò da una colonna un manifesto con la testa di un criminale, baffetti alla Hitler e svastica in fronte. «WANTED» c’era scritto sopra e sotto si spiegava quale sarebbe stata la ricompensa per chi avesse catturato vivo o morto Calabresi.
All’esterno del palazzo la zona di Porta Vittoria era blindata: c’erano file di gipponi, decine di autopompe, agenti in tenuta antisommossa.

Il clima era tesissimo anche dentro al palazzo di giustizia. Studenti e anarchici si erano dati appuntamento per assistere al processo e affollavano gli ampi corridoi perché l’aula era piena. Intonarono l’internazionale durante il primo intervento di Baldelli, gridarono cori contro Calabresi e chi era in aula non poté fare a meno di sentire i rumori provocati dalle cariche della polizia all’esterno.
Le dichiarazioni di Calabresi e degli altri presenti nel suo ufficio la notte del 15 dicembre 1969 mostrarono uno scenario completamente diverso da quello delineato nella prima conferenza stampa tenuta in questura: Pinelli appariva sereno e disteso in quanto non vi erano accuse a suo carico e non gli erano state mosse contestazioni.
Si mostrarono tutti d’accordo sul suo buon umore probabilmente per evitare di essere accusati di istigazione al suicidio o addirittura di omicidio colposo.
Nessuno dei presenti vide come l’anarchico aveva spiccato il salto, anche se nella versione data a Caizzi molti avevano parlato di «salto», «lancio», «scatto felino», «balzo repentino verso la finestra». Lograno disse di essersi distratto, di aver sentito solo un gran rumore di legno sbattuto, allora lo sguardo era tornato alla finestra, che era completamente spalancata. Inquadrate al centro, nel vuoto, le suole di Pinelli. Allora il tenente dei carabinieri gridò: «Si è buttato, si è buttato!».
Caracuta stava riordinando dei fogli, si voltò sentendo il rumore dell’anta e vide il brigadiere Panessa che si sporgeva per afferrare qualcosa.
Carlo Mainardi raccontò che il ferroviere, messa la mano nello spiraglio tra le due ante, di colpo ne sbatté in faccia una allo stesso poliziotto e si lanciò. Non poté fare nient’altro che cercare di «cinturare» il brigadiere che si era sporto per cercare di afferrarlo.
Lo stesso Panessa, che dopo l’accaduto aveva più volte parlato di «scatto felino», disse che sentì Pinelli dare un colpo all’anta e poi volò giù, sfiorandolo con un piede, che vide nel momento in cui si voltò.
Il brigadiere, a un certo punto del processo, arrivò a usare l’espressione «versione concordata», per indicare la dichiarazioni fatte a Caizzi, ma dopo un ammonimento di Biotti («lei parla troppo»), si corresse parlando di uno scambio di idee.
La difesa di Baldelli ottenne un sopralluogo nella stanza in cui venne interrogato Pinelli. Lo spazio era decisamente ridotto rispetto a una piantina mostrata in precedenza, perché i periti incaricati avevano ridotto le dimensioni dell’arredo presente nella stanza.
Venne chiesto di poter visionare il registro dei fermati, che confermò l’illegittimità del fermo del ferroviere, ma comparve anche una raccapricciante annotazione fatta da un’anonima guardia: alle ore 12:00 del 17 Dicembre Pinelli risultava messo in libertà, mentre era già morto da quasi trentasei ore.
Importante per chiarire il clima dell’interrogatorio fu la testimonianza di Valitutti. Egli, che al momento del volo si trovava nel corridoio adiacente all’ufficio, dichiarò di aver sentito un rumore come di oggetti che si urtavano tra loro un quarto d’ora o mezz’ora prima della caduta.
I difensori chiesero una nuova perizia per stabilire se Pinelli, quando precipitò dalla finestra, era già in stato di incoscienza; il che escluderebbe il suicidio.
Tale richiesta venne avanzata perché l’accertamento svolto nell’inchiesta di Caizzi era assolutamente insufficiente per stabilire le cause della morte e inoltre era stata trascurata una lesione riscontrata alla base del collo (quella che diede origine alla teoria del colpo di karatè).
Furono così convocati periti esperti per accertare le cause della macchia ovulare alla base del collo. Però dovettero eseguire la perizia solo sulla carta utilizzando i verbali, le fotografie del cadavere e le valutazioni dei primi esperti intervenuti.
Ma dall’analisi di questi documenti emerse ben poco: secondo i periti della parte civile la macchia ovulare era dovuta alla lunga permanenza sul tavolo dell’obitorio, mentre quelli della difesa non esclusero che si trattasse di un colpo di karatè.
Gli avvocati di Baldelli chiesero una perizia completa che avesse come base i resti della vittima, previa riesumazione, tutti i reperti che si trovavano all’Istituto di medicina legale e tutti i rilievi raccolti dal tribunale.
Il tribunale concesse la riesumazione, andando contro un’agguerrita parte civile.
Ma a questo punto vi fu un colpo di scena. L’avvocato di Calabresi, Michele Lerner, ricusò il giudice Biotti.
Lerner sostenne che, in seguito ad un colloquio privato, Biotti gli aveva confidato che alcuni giudici avevano fatto pressioni su di lui perché assolvesse Baldelli e che tanto lui che gli altri giudici erano convinti che il colpo di karatè fosse stato inferto a Pinelli provocandogli la lesione del bulbo spinale. Il giudice negò di aver mai riferito una cosa del genere a Lerner.
Alla fine la tomba restò chiusa e il 7 giugno 1971 la Corte d’Appello rimosse il giudice dall’incarico, accettando la ricusazione; e il processo si arenò definitivamente.
Ma la vedova dell’anarchico non si arrese e il 24 Giugno, tramite i suoi legali, chiese la riapertura dell’istruttoria e l’incriminazione di tutti i poliziotti coinvolti per i reati di omicidio volontario, violenza privata, sequestro di persona, abuso d’ufficio e abuso d’autorità.
La procura generale decise di riaprire l’istruttoria e il fascicolo fu assegnato al magistrato Gerardo D’Ambrosio che come prima cosa, a distanza di ventuno mesi dalla morte dell’anarchico, fece sequestrare la cartella clinica, ignorata dall’inchiesta precedente.
Fu sequestrato alla Vigilanza Urbana il registro delle chiamate delle autoambulanze richieste dalla questura, un documento che avrebbe dovuto essere in mano alle autorità il giorno dopo la morte di Pinelli.
Il 5 ottobre 1971 D’Ambrosio inviò sei avvisi di reato contro Luigi Calabresi, e i sottufficiali di Pubblica Sicurezza Panessa, Caracuta, Mainardi, Mucilli e il capitano dei carabinieri Lograno.
Il 21 ottobre la salma dell’anarchico venne finalmente riesumata, ma ormai era difficile scoprire qualcosa visto l’avanzato stato di decomposizione. Comunque emersero due nuove fratture.
La sentenza finale, emessa il 27 ottobre del 1975, escluse l’ipotesi dell’omicidio volontario, ma anche quella del suicidio. Questa sentenza individuò la causa della morte di Pinelli nel cosiddetto «malore attivo»: per fumare una sigaretta Pinelli si avvicinò alla finestra, la aprì e «una improvvisa vertigine, un atto di difesa nella direzione sbagliata, il corpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto».
D’Ambrosio prosciolse tutti gli imputati perché «la mancanza di prove che un fatto è avvenuto equivale nel nostro sistema processuale […] alla prova che un fatto non è avvenuto». Calabresi, non più commissario aggiunto, ma capo, era morto da tre anni: ucciso a colpi di pistola il 17 maggio 1972.
Quando ricordiamo i fatti del 12 dicembre non possiamo ignorare la vicenda dell’anarchico Pinelli. Ancora oggi la questione rimane controversa, come dimostrano anche le due lapidi presenti in Piazza Fontana.
Su una, quella posta dalle autorità, si legge: «A Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, innocente morto tragicamente, nei locali della questura di Milano, il 15-12- 1969».
Sull’altra, collocata nella piazza dai compagni del ferroviere, c’è scritto: «A Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, ucciso innocente nei locali della questura di Milano, il 16-12-1969».
Questa porta la firma degli studenti e dei democratici milanesi.
Nel 2009 il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha invitato la vedova e le figlie dell’anarchico Pinelli tra i familiari delle vittime del terrorismo e delle stragi.
Ecco le parole con cui Napolitano, in questa occasione, ricorda il ferroviere: «Ricordare la strage di Piazza Fontana a Milano e con essa l’avvio di un’oscura strategia della tensione, come spesso fu chiamata, significa ricordare una lunga e tormentatissima vicenda di indagini e di processi, da cui non si è riusciti a far scaturire una esauriente verità giudiziaria […].
Rispetto ed omaggio dunque per la figura di un innocente, Giuseppe Pinelli, che fu vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di un’improvvisa, assurda fine […]. Qui si compie un gesto politico e istituzionale, si rompe il silenzio su una ferita, non separabile da quella dei diciassette che persero la vita a Piazza Fontana, e su un nome, su un uomo, di cui va riaffermata e onorata la linearità, sottraendolo alla rimozione e all’oblio. Grazie signora Pinelli, grazie per aver accettato, lei e le sue figlie, di essere oggi con noi …».


La strage di piazza Fontana, con la morte di 17 persone inermi e il ferimento di quasi un centinaio, fu provocata da una bomba collocata dal gruppo fascista di Ordine Nuovo all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura, con la copertura degli apparati dello Stato.

Un anno dopo, il 12 dicembre 1970, un corteo per ricordare la strage venne vigliaccamente caricato. Colpito al petto, all’altezza di Via Bergamini, angolo Via Larga, da un lacrimogeno sparato ad altezza uomo, rimase a terra e mori’ un giovane militante di sinistra, Saverio Saltarelli. L’intento era di creare nel Paese un clima di terrore per bloccare, attraverso la repressione poliziesca e il restringimento delle libertà democratiche, le lotte operaie e studentesche che stavano scuotendo dalle fondamenta la società. A sancire questa verità e ultime sentenze degli stessi tribunali che hanno riaffermato la matrice dell’attentato, nonché le responsabilita’ di Franco Freda e Giovanni Ventura, due degli stragisti fascisti.
Ribadirlo significa testimoniare quella verità che si vorrebbe nuovamente oscurare in nome di una generica condanna del terrorismo. Con essa nascondere le tragiche circostanze della morte di Giuseppe Pinelli, la diciottesima vittima innocente di piazza Fontana, che fu fatto precipitare da una finestra del quarto piano della Questura milanese, non certo per un malore, quando si cercava di attribuire a Pietro Valpreda e agli anarchici la responsabilità di quanto accaduto. Tanto piu’ oggi quando, attraverso operazioni culturali, come film che romanzano l’intera vicenda o libri fintamente di inchiesta, si cerca di sviare nuovamente la verità o puntare a una sorta di riappacificazione mettendo vittime e carnefici sullo stesso piano.

PIAZZA FONTANA STRAGE DI STATO
VALPREDA INNOCENTE
PINELLI ASSASSINATO
CONTRO OGNI REVISIONISMO
CONTRO OGNI TENTATIVO DI RISCRIVERE LA STORIA AD USO E CONSUMO DEI POTENTI NESSUNA CONDIVISIONE DELLA MEMORIA TRA VITTIME E CARNEFICI

 

consigliamo la lettura dell’intero dossier “Piazza Fontana e dintorni”, del quale abbiamo riportato una parte.

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