Ciò che l’occhio vede la mano afferri

da Finimondo.org

La materia infiammabile della proprietà
fece scoppiare l’incendio della rivoluzione
Max Stirner
 
 

Lo dice la Chiesa con il settimo comandamento (non rubare). Lo dice lo Stato con gli articoli 624 e 628 del codice penale (che sanzionano il furto e la rapina). Ogni forma di autorità, divina o terrena, ha sempre proibito agli esseri umani di allungare le mani sulla proprietà altrui. Eppure, lo stesso concetto di proprietà privata non è forse un’invenzione relativamente recente?
Lasciamo pure perdere la preistoria, in cui il possesso permanente ed istituzionalizzato era non solo impensabile, ma reso impossibile dallo stesso nomadismo praticato all’epoca dall’essere umano. Osservando la storia, sia antica che moderna, appare comunque chiaro che l’atteggiamento nei confronti della proprietà privata è cambiato col mutare delle epoche e delle culture. Se nell’antichità la proprietà era presente ed accettata, essa era pur sempre guardata con una certa ostilità, sospettata di essere causa di discordia, violenze e guerre. Filosofi e scrittori la consideravano una sorta di male necessario cui non si può rinunciare se si vuole condurre una vita dignitosa, ma da contenere il più possibile. Parecchi non avevano dubbi sulla maggiore libertà in cui vivevano gli esseri umani prima del suo avvento, e non mancarono uomini politici che ne ammettevano senza reticenze l’assoluta innaturalità. La proprietà era una specie di triste conseguenza del peccato originale. Necessaria allo Stato, non lo era affatto alla felicità dell’essere umano.
Infatti, nel cristianesimo nascente, assai forte era il disprezzo per il denaro e la demonizzazione della ricchezza. Essendo Dio il creatore dell’universo, era considerato il solo proprietario di ogni cosa, che veniva concessa in possesso a tutti gli esseri umani indistintamente.
Dagli Atti degli Apostoli: «Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore…» (2,44-46). Questo stile di vita basato sulla solidarietà e l’uguaglianza, associato all’esempio della cacciata dei mercanti dal tempio, avrebbe ispirato nel Medio Evo non poche rivolte millenariste. Per secoli l’arroganza dei ricchi e dei potenti, nel proclamare di proprio esclusivo dominio ciò che apparteneva a tutti, ha dovuto scontrarsi con una certa resistenza, teorica e pratica.
La proprietà privata a noi nota, quella che conosciamo nel sistema capitalistico in cui siamo nati e cresciuti e che perciò viene percepita quasi come si trattasse di qualcosa di “naturale”, risale di fatto a pochi secoli or sono. È solo a partire dal 600 che inizia a diffondersi, grazie a pensatori come Locke, l’idea secondo cui la proprietà è un fatto di natura e un diritto inviolabile di ogni cittadino. Nonostante una certa critica illuminista, la giustificazione della proprietà non ha più cessato di accompagnare l’essere umano. La ricchezza è diventata un bene assoluto, e il capitalismo il migliore dei mondi possibili. Oggi la proprietà privata è considerata in tutti i paesi un vero e proprio diritto sacro e naturale, assoluto e irrinunciabile, necessario e inviolabile, degno di essere tutelato con la forza delle idee e protetto con la forza delle armi.
Eppure il desiderio di un mondo in cui tutto sia a disposizione di tutti è fonte di secolari rivolte nonché musa di ricorrenti utopie. Naturalmente i guardiani di questo ordine sociale pretendono che l’assenza di proprietà sia solo un mito preistorico o una illusione futuristica. E a dimostrazione di questo assunto ci ricordano tutta la miseria del presente in cui regna la peste del profitto. Inutile negare che gli oggetti abbiano perduto da tempo immemore il loro valore d’uso a favore di quello di scambio e che oggi siamo circondati da una miriade di merci destinate ad essere comprate e vendute.
Dal possesso si è passati alla proprietà, dalla prodigalità si è passati al calcolo ed il commercio ha ridotto il dono ad eccezione da praticare solo nelle festività. Tuttavia questo lungo processo di addomesticamento non è avvenuto senza opposizione, opposizione che in un’altra epoca assumeva non di rado una dimensione collettiva, mentre in tempi più recenti si manifesta per lo più a titolo individuale.

Ciò che l’occhio vede la mano afferri è fin dal Medioevo il grido di battaglia di chi aspira ad una società senza denaro. Nessun comandamento divino, nessun articolo di codice penale — la coscienza moderna di una umanità senza più coscienza — riusciranno mai a frenare l’assalto al banchetto della vita.
Quando lo stomaco urla la sua fame, quando il cuore grida la sua disperazione, perché mai l’individuo dovrebbe cadere nella rassegnazione anziché elevarsi nella rivolta? Che i poveri rubino ai ricchi, è un’ovvietà impossibile da arginare se non con le manette e il patibolo. Già nel XVII secolo il casista Antonino Diana arrivava a giustificare il furto in caso di «necessità grave», scatenando le ire del vescovo Juan Caramuel Lobkowitz il quale sosteneva che, se fosse bastata l’indigenza a legittimare il “crimine”, la società intera ne sarebbe stata sconvolta. Due secoli dopo, nell’Ottocento, uno scrittore licantropo avrebbe fatto notare che «il grande commercio depreda il negoziante, il negoziante depreda il bottegaio, il bottegaio depreda l’artigiano, l’artigiano depreda l’operaio e l’operaio muore di fame».

Ed oggi, cosa è cambiato oggi? Nel paese simbolo dell’opulenza occidentale, nella culla del capitalismo, gli Stati Uniti, il numero di coloro che rubano merci nei negozi è arrivato a 27 milioni di unità, vale a dire 1 abitante su 11 circa; negli ultimi cinque anni, sono stati arrestati per furto nei supermercati oltre 10 milioni di individui, tre quarti dei quali adulti; e il valore delle merci sottratte ogni anno si aggira sui 30 miliardi di dollari. Non è il classico movimento di massa, organizzato da qualche comitato centrale, dotato di un programma politico da realizzare. È la fame, la rabbia, la disperazione, che spinge milioni di persone ad allungare la mano e a prendere ciò di cui hanno bisogno senza chiedere permesso a qualcuno.
Contro questa libertà, ci sono guardie armate, controllori in abiti civili, telecamere, sistemi antitaccheggio. Contro questa libertà, si fa affidamento anche sul senso di vergogna che molte persone provano quando vengono colte «in flagranza di reato». Negli Stati Uniti, per esempio, manifesti ironici affissi nei grandi magazzini promettono una serie di premi a chi venga trovato in possesso di merce sottratta: giri gratuiti su veicoli della polizia, clamore mediatico, un’adeguata reputazione presso genitori, amici e vicini di casa. La guerra contro i poveri si fa anche con armi psicologiche. Ecco perché diventa sempre più urgente capovolgere l’infame luogo comune secondo cui la vita — anzi, addirittura la mera sopravvivenza — vada guadagnata e meritata con il sudore della fronte e chi è privo di mezzi di sostentamento possa solo morire onestamente. E necessario diventa anche ricordare le ragioni del furto, della rapina, di ogni attacco contro la proprietà privata. Questa antologia vuol essere un piccolo contributo in tal senso.
Proprio oggi, in un momento in cui sempre più persone si ritrovano in mezzo a una strada, inutili anche come operai da sfruttare, cosa si opporrà alla fame di dignità e alla sete di uguaglianza? Il rispetto per la proprietà privata? Forse che i poveri dovranno rispettare la ricchezza dei privilegiati come i privilegiati rispettano la miseria dei poveri? Fino a quando? Quando l’adempimento degli obblighi sociali non riuscirà più a compensare la mancanza di gioia nella vita, quanti commessi zelanti o sbirri patentati dovranno essere sguinzagliati a protezione degli incassi? O si pensa veramente che sia possibile soddisfare in eterno il ventre ed il cuore distraendoli con ammiccanti “veline” e campionati di calcio più belli del mondo?

Non ci resta che riprendere il consiglio di un noto scrittore e ladro:
— Ruba, niente a che vedere con la ciotola del mendicante.

Ciò che l’occhio vede la mano afferri
pp. 184, euro 10

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triviott@yahoo.com; grotesk@libero.it

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