[Genova] Un passato da riscattare, un presente da rovesciare: presenza al processo G8 2001

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No Tav – Libertà per gli arrestati No Tav

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Una violenza preannunciata quella della Questura che ieri sera, non appena è partita la passeggiata notturna da Giaglione, già emanava farneticanti comunicati paventando lo spauracchio del black block travisato tra i manifestanti valligiani.

Una violenza preordinata quella delle forze dell’ordine, che caricano  con la celere i No Tav ancora distanti dalle reti e completamente a freddo. Lo fanno all’interno di un sentiero di montagna strettissimo e pericoloso dove la gente cade, viene calpestata e poi ferita, ripetutamente, dai manganelli di ordinanza e inseguita addirittura nei boschi (già affumicati dai fumi illegali sparati dalla polizia). Da segnalare all’interno del cantiere la presenza dei due mastini della procura che hanno l’ossessione dei No Tav, Padalino e Rinaudo, erano li per caso oppure già sapevano che avrebbero fatto degli arresti?

Ci sono molti anziani tra i più di cinquecento manifestanti, sono loro i primi a non farcela a scappare e gruppi di più giovani provano a frapporsi: tra di loro troviamo i 7 arrestati di cui la Questura di Torino, per mano del vendicativo Petronzi, si vanta.

Ennio, Luke, Matthias, Piero, Marcello, Gabriele e Alberto sono i sette arrestati di questa notte di violenza, notte in cui il movimento No Tav ha dimostrato una volta in più cosa vuol dire lottare e resistere tutti insieme, anche nei momenti difficili.

La presenza delle forze dell’ordine all’interno del cantiere è quella delle grandi, anzi grandissime occasioni, con numerosi mezzi e uomini a disposizione degli esaltati questurini. Come scritti poc’anzi, li troviamo subito fuori dalle reti e la loro intenzione è chiara: vogliono picchiare e fare male.

Ci riusciranno perché oggi contiamo 63 feriti tra i No Tav, escludendo da questo conto le semplici contusioni e intossicazioni da gas lacrimogeni che oramai non fanno più testo.

Oggi alle 15.00 al presidio internazionale di Susa il Movimento No Tav ha denunciato con forza, attraverso una conferenza stampa, la notte appena trascorsa.

Parole di rabbia verso chi si è macchiato dei reati più infamanti, come nel caso di Marta compagna Pisana rilasciata in mattinata che, catturata con gli altri, mentre veniva brutalmente pestata è stata molestata, sessualmente, dai celerini.

C’è anche il caso di Mattia, ragazzo 17enne che per due ore è stato picchiato dalla polizia ed è tornato in presidio solo nel tardo pomeriggio, per lui come per Marta un denuncia a piede libero ma nessun arresto.

Stiamo raccogliendo racconti e testimonianze di questa notte, ma ciò che è importante sottolineare è che il movimento ha dimostrato una volta di più che anche in una situazione difficile si diventa un’unica forza, compatta, in grado di resistere e anche di contrattaccare.

La Questura questa volta si è tolta il dente avvelenato e noi, consapevoli di aver di nuovo visto la vera faccia del potere, o meglio di chi lo serve, ci stringiamo attorno agli arrestati, rilanciando a  tutte le iniziative che già da stasera animeranno quest’estate di lotta in Valsusa.

La lotta No Tav non si arresta!

Liberi tutti, liberi subito!

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Corrispondenze ribelli (Brasile, Turchia)

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Brasile: validità della violenza rivoluzionaria

Assistiamo per le strade al più grande lascito della Coppa delle Confederazioni.
Grazie Fifa.

I ministri e i media, stupefatti, dicono di non comprendere il senso di questa rivolta. Isolati nel loro paradiso artificiale, hanno paura di affrontare il paese. È da almeno una decina d’anni che spero avvengano cose del genere. Il giorno è arrivato. «Ogni notte — ci sono delle aurore, e raggi di luce — nelle tenebre». «Il Brasile si è risvegliato», questa frase si può leggere sui cartelli di molte manifestazioni. Svegliarsi per sognare.
In questa serata storica, i fortunati erano coloro che non riuscivano a dormire. L’insonnia di coloro che attaccano è assai più piacevole di quella dei difensori della vecchia fortezza.
Le classi dominanti e reazionarie, in mezzo all’incubo della strada, espongono la loro strategia per liquidare il movimento. La scorsa settimana abbiamo visto gli attacchi velenosi dei loro portavoce. Arnaldo Jabor ci ha detto che questa gioventù non vale nulla, Luis Datena ci ha trattato da vandali e insorti. È diventato chiaro che la repressione non ha fatto che aumentare la ribellione, e il discorso è cambiato. Ieri, Jabor ha parlato di una generazione che ha idee; Datena ha detto a CQC [trasmissione umoristica] che nonostante sia nel giornalismo poliziesco, la sua specialità sono i diritti umani.
Che cambiamento in una sola settimana! Adesso gli «esperti in sicurezza» vengono promossi in esperti in manifestazioni. Siamo abituati  a vedere trasmissioni su come comportarsi nel corso di colloqui di lavoro. Ma è una novità sentire giornalisti dei loro media darci lezioni su cosa dovremmo fare, o non fare, nelle nostre manifestazioni.
Gli stessi che ci infangano vogliono oggi darci lezione. E la lezione ci viene ripetuta fino alla noia, con accanimento, in tutti i media: «le manifestazioni devono essere pacifiche», «è bello vedere persone vestite di bianco», «la maggioranza dei giovani vogliono la pace, solo un piccolo gruppo di manifestanti radicali ha lanciato pietre contro la polizia».
Il discorso di pace, signori, è arrivato troppo tardi. Perché voi, giornalisti delle redazioni, non avete incoraggiato la polizia antisommossa a vestirsi di bianco durante l’eliminazione delle favelas per i lavori della Coppa del mondo a Rio de Janeiro? E perché la forza di sicurezza nazionale del governo di Rousseff non è venuta a portare fiori ai lavoratori in rivolta di Jira? E perché mai la polizia federale non avrebbe dovuto reintegrare i responsabili dell’assassinio degli indiani Terena del Mato Grosso del Sud?

«Di un fiume che trascina tutto si dice che sia violento, ma nessuno parla della violenza degli argini che lo comprimono».

Il discorso di pace di Datena è dantesco. Non ingannatevi, perché quei signori e quelle signore saranno gli stessi che chiederanno punizioni esemplari per i manifestanti radicali. La classe operaia conosce la furia sanguinaria della reazione borghese. Durante la Comune di Parigi, i rivoluzionari hanno pagato caro di non aver schiacciato la classe dirigente sconfitta. Ventimila persone sono stare uccise quando la borghesia ha ripreso la capitale francese.
La contro-propaganda che difende le manifestazioni pacifiche mira a rendere sterile la nostra rivolta. Arrivano a dire: «le manifestazioni ordinate sono uno schiaffo in faccia ai politici, perché non hanno nessuna scusa per reprimerci». Le persone non hanno bisogno di manifestazioni per venire represse, basta essere poveri, neri e delle favela, per essere minacciati tutti i giorni dalla violenza della polizia del vecchio Stato.
Affermare che le manifestazioni pacifiche siano più «efficaci» è una stronzata. Andare nelle strade semplicemente non basta. Prendiamo l’esempio delle manifestazioni di “Diretas Jà” del 1984. Milioni di persone sono scese in strada alla fine del regime militare per reclamare elezioni presidenziali dirette. Tutti gli incontri diretti si sono svolti in maniera ordinata e pacifica. Uno schiaffo in faccia alla dittatura, avrebbero detto gli esperti delle manifestazioni odierne. Il risultato? Una disfatta per il popolo. Malgrado le folle per le strade, l’emendamento è stato respinto dal Congresso nazionale e Tancredo Neves è stato eletto presidente grazie al voto indiretto di un collegio elettorale.

«La violenza è la saggia donna della storia».

Perché la violenza del popolo è resistenza. Perché la «ribellione è giustificata». E perché se le manifestazioni si diffondono in tutto il paese non è per il vile attentato del fascista Alckmin PM. È la reazione violenta della gioventù, i vetri infranti, le banche saccheggiate, gli autobus bruciati. Abbiamo spinto alla destituzione Collor e forzato le sue dimissioni, il suo vice ha preso il posto e nulla è cambiato. Adesso, gli adolescenti si coprono il volto, invadono l’Assemblea Legislativa di Rio e occupano il tetto del Congresso.
La storia viene riscritta nei graffiti sui monumenti del passato. Giovani urlanti delle tribù danzano attorno a un’automobile in fiamme. Siamo guarani-Kaiowa, Terena, tapeba, Mundruruku. Siamo il popolo brasiliano, «ce ne fottiamo della Coppa del Mondo!».
È solo l’inizio, l’inizio di una lunga saga per la nostra libertà. Che gioia vivere questo momento. È ora di smetterla, perché sono tutti nelle strade e hanno bisogno anche di me.

«Il mio nome è sommossa, ed è inciso sulla pietra».

[A Nova Democracia, 18/6/2013]

Turchia: il movimento è debole, la repressione è forte

Sembra proprio che gli scontri e le manifestazioni notturne del weekend siano stati il tentativo di salvare l’onore del movimento. L’espansione e l’estensione che avrebbero potuto consentirne il proseguimento non sono avvenute.
In questi ultimi giorni il potere ha tirato fuori le unghie. Dopo aver deliberatamente usato un altissimo livello di violenza nello sgombero di sabato (utilizzo di gas nei cannoni ad acqua, caccia all’uomo, attacco dell’albergo utilizzato come ospedale…), ha annunciato il dispiego di unità di poliziotti e di gendarmi rimpatriati dal Kurdistan ad Istanbul. Domenica, le strade di tutti i quartieri attorno a piazza Taksim erano straripanti di sbirri che disperdevano tutti i gruppi che si formavano per tentare di fare fronte. Molti civili, molti arresti (600 secondo diverse fonti); molti feriti ancora. Gruppi pro-AKP hanno iniziato a costituirsi, intimidendo i manifestanti, una molotov è stata lanciata sui manifestanti. Il governatore di Istanbul ha minacciato l’uso dell’esercito, Erdogan ha detto ai manifestanti: voi avete questo e quel quartiere dalla vostra parte, ma noi abbiamo questo, quello e quell’altro. Il clima è di minaccia di ritorno agli anni oscuri, alla sospensione delle abitudini democratiche. Il potere gioca sulla paura della guerra civile, mentre la situazione è ben lungi dall’essere insurrezionale. Si può supporre che questo faccia paura a molti, data la composizione sociale della contestazione — persone di fatto protette dallo stato di diritto.
Lunedì, sciopero e manifestazioni indette da diversi sindacati di sinistra, in particolare nella funzione pubblica. Lo sciopero è stato poco seguito, i sindacati hanno deciso di sciogliere i cortei, poco partecipati, non appena venivano bloccati dagli sbirri. I sindacati hanno ovviamente mobilitato poco, questo movimento non coincide affatto con la loro agenda politica. Non sono inclini al rapporto di forza con il governo, e non sono spinti dalla loro base. Le forze politiche d’opposizione vanno in confusione, mostrano la loro debolezza, non hanno mai saputo trarre profitto dal movimento. Non cercano nessuna vittoria nell’immediato — tanto meglio, forse, ma sono in grado comunque d’indebolire la dinamica di scontro dal momento che il movimento non ha mai cercato di escluderle.
Martedì mattina, retata nelle organizzazioni di estrema sinistra, definite terroristiche dal potere, che sostiene di voler condannare delle persone all’ergastolo. Anche il capo degli ultrà di Carsi viene arrestato. E probabilmente non è finita.
La repressione sa scegliere i suoi bersagli. È già stata evocata la doppia composizione del movimento: da un lato i militanti di estrema sinistra (maoisti, trotskisti, curdi) più o meno autonomi, a cui si sono aggiunti ultrà “anarchici” abituati allo scontro di piazza; dall’altra la classe media europea della città. Queste due componenti si sono impegnate con modalità abbastanza distinte; e ormai la repressione scava il fossato fra di esse. Certo, tutti hanno mangiato il gas e gli arresti sono stati di massa, superando lo zoccolo duro degli attivisti e dei «violenti», ma per la maggior parte i fermi sono stati di breve durata e senza conseguenze. Da una settimana il trattamento è chiaramente diverso, ed il movimento non si difende.
Ci sono ancora molte tracce di movimento: nei quartieri delle classi medie occidentali si continua a gridare slogan, a fischiare e a battere sulle pentole ad ore fisse, ed ormai si adotta il trucchetto dell’immobilità. Ma si tratta di una contestazione morta, priva di rapporti di forza reali, e che porta più che mai il segno di una identità sociale e culturale specifica legata alla borghesia kemalista. Di fatto, l’insieme di questa frangia della popolazione ha sostenuto il movimento perché è naturalmente opposta al AKP.  Vi ha partecipato, è stata presente, ma vi era in ciò un qualcosa di simile all’affermazione della propria esistenza in quanto élite sociale di ciò che essa percepisce come «suo» paese minacciato da un governo che rifiuta. La distinzione fra attività di lotta e dimostrazione del sostegno di sé era debole — affogata in un effetto di massa ritenuto in grado di reggere il rapporto di forza.
Questa attività di lotta è stata essa stessa limitata. Assemblee, occupazioni, scioperi, blocchi sono stati inesistenti. Certo, per tutto il periodo di lotta il parco è stato uno «spazio liberato» e lo sgombero della polizia del perimetro ne ha fatto un luogo di scambio, di riappropriazione del tempo e dello spazio, di elaborazione di certe pratiche espressive, e di difesa comune — e questa occupazione ha provocato un blocco di fatto, anche se questo non era il suo obiettivo dichiarato. Una potenza collettiva si è manifestata; ha suscitato l’euforia persino nei militanti più agguerriti — e da un punto di vista esteriore si è avuta l’impressione di una grande cosa. La reazione allo sgombero sabato sera (manifestazioni notturne spontanee in tutta la città con blocco di alcune strade) ha lasciato pure intravedere la possibilità di una esplosione dello spazio di scontro. Ma l’incapacità del movimento di dotarsi di altre prospettive — che avrebbero supposto lo sviluppo di uno scontro al suo stesso interno — ha provocato il suo indebolimento progressivo, che il potere ha voluto mettere in scena come una repressione violenta — per ragioni sue.
Le barricate sono ora state spazzate via ed il parco è ormai controllato da torme di sbirri. Poliziotti in borghese infestano la zona; si fanno vedere, controllano. Mentre ancora qualche giorno fa metà delle persone che si incrociavano si vestivano apertamente con caschi da cantiere, occhiali di protezione e maschere antigas, adesso capita che questo genere di materiale venga scoperto nel corso di perquisizioni inaspettate.
I concerti di fischi ad ore prestabilite nei quartieri «laici» mal nascondono il processo di normalizzazione; le persone immobili come statue rendono eclatante la fine del movimento. Forse il movimento indebolisce politicamente il potere in carica; forse avrà per esso un costo elettorale. Allora la borghesia kemalista evocherà con nostalgia questo «risveglio» che avrà segnato il suo ritorno sulla scena politica.

Può anche darsi che molti avranno imparato da questo movimento che le linee di forza all’interno della società turca si sono mosse, che uno spirito contestatario si è radicato dentro la gioventù. È troppo presto per dirlo — ma la fine di un movimento contiene solo raramente la forza del suo successore. Nel momento attuale, quelli che subiscono la repressione — e devono organizzarsi di fronte ad essa in quanto frazione distinta dentro il movimento — sentono fin troppo bene cosa significhi la vittoria dello Stato.

[Des Nouvelles Du Front, 19/6/2013]

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Mattone su mattone

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Note sulla lotta contro il carcere

La capacità di adattamento dell’essere umano supera ogni immaginazione. Si può porre un uomo in pressoché qualsiasi condizione, anche nelle condizioni in cui ci sia solo la morte come filo rosso della storia, e riuscirà ancora ad adattarsi, ad accordare il suo comportamento al diapason dell’ambiente ostile. Da un lato, questa capacità è straordinaria e costituisce la specificità dell’essere umano in quanto tale. Dall’altro, essa è infinitamente tragica poiché il potere non incontra solo avversari implacabili, ma anche la rassegnazione che, in fin dei conti, rappresenta proprio il respiro vitale, per quanto putrido, del potere stesso.

Alcuni diranno che si tratta dell’istinto di sopravvivenza, altri si rifaranno all’inesauribile creatività di cui l’uomo ha dato prova attraverso la Storia nel far genuflettere e incatenare il suo prossimo. Altri ancora si faranno coraggio per l’elasticità che caratterizza la rivolta umana a fronte di condizioni insopportabili. Ad ogni modo, in prigione ritroviamo tutto questo in maniera concentrata. Ma è possibile criticare il carcere senza parlare immediatamente della sua genitrice, questa società basata sull’autorità e sul potere? Nulla in questo mondo può essere considerato a sé stante. Tutta la nostra vita è legata a quella degli altri (anche, se non soprattutto, ad un livello conflittuale), proprio come nel loro insieme le strutture della società che sono state erette nel nome del suo benessere — parliamo ovviamente del benessere «della società», distinguendolo da quello degli individui che ne fanno parte — sono legate fra loro. La struttura fisica di un ospedale, di una scuola, di un ospizio o di una fabbrica assomiglia a quella di un carcere.

I meccanismi intrinseci e che danno loro corpo si accordano e si trovano in dialogo permanente. Considerare la prigione come una questione separata, staccare la sua problematica dall’insieme della questione sociale, significherebbe passare a fianco di quanto abbiamo davanti. O, peggio, fare il gioco del potere che non presenta mai le sue strutture come un tutt’uno, ma come elementi separati (e quindi suscettibili di eventuali miglioramenti). Se questi elementi ne costituiscono le fondamenta, il potere è il cemento che li trasforma in muro dell’autorità. Gli ostacoli sul cammino verso la libertà non sono gli elementi separati, che sarebbero anche relativamente facili da abbattere, bensì il muro costituito da tali elementi e dal cemento apparentemente inattaccabile del potere.

Il carcere e la società come galera a cielo aperto

Benché la lotta contro la prigione non sia una questione di statistiche, di numeri e di cifre — è proprio la sua stessa logica a ridurre tutti gli uomini a numeri e a dossier giudiziari — non si può fare a meno di constatare che mai prima d’ora tante persone si sono ritrovate imprigionate in una delle molteplici strutture di reclusione dello Stato. La logica concentrazionaria e d’internamento non è stata seppellita dopo i campi nazisti. Al contrario, è stata approfondita ed estesa all’insieme della società. Il numero crescente di prigionieri — nel senso di persone a cui è stata tolta la libertà che lo Stato concedeva loro — va di pari passo con una diversificazione della reclusione: prigioni, centri di detenzione per clandestini, riformatori, carceri minorili, istituzioni psichiatriche e, da poco, la propria abitazione (trasformata in gabbia dall’intrusione del braccialetto elettronico).

Ma prendere in considerazione unicamente questa tendenza e staccarla dall’insieme della direzione presa dalla società ci porterebbe solo a porre domande sbagliate. Di fatto, si tratta di un duplice movimento. Da un lato l’estensione delle strutture di reclusione. Dall’altra, l’estensione ben più spinta del controllo sociale, soprattutto attraverso le nuove tecnologie. Il numero di carceri continua ad aumentare, proprio come il numero di persone che vi sono detenute. È la società nel suo insieme che si trasforma poco alla volta in una grande galera a cielo aperto. Si potrebbe perfino dire che l’estensione della capacità di reclusione costituisce in qualche modo un arcaismo a paragone della repressione preventiva, molto più «efficace».

La prigione non si limita certo soltanto alle quattro mura e nemmeno per estensione al controllo tecnologico o alla psichiatrizzazione dell’uomo. La reclusione — concepita come chiusura, restrizione o abolizione delle possibilità che un essere umano in libertà potrebbe cogliere — la ritroviamo in ogni oppressione sociale. Sarebbe quasi grottesco parlarne con l’aiuto di paroloni e di meccanismi autoritari, mentre basta vedere come prende corpo nella famiglia o in un contesto religioso. In tal senso, la prigione non può essere considerata altrimenti che come la conseguenza di tutti i rapporti autoritari che rendono ciò che chiamiamo «il nostro mondo» lo schifo che è. E inversamente. Poiché è ad immagine della prigione che il dominio nel suo insieme si radica nel corpo e nello spirito degli esseri umani. La prigione è l’incarnazione flagrante, visibile e palpabile di ogni logica autoritaria; così come l’autorità non potrà costruire altro che prigioni, anche se queste possono assumere diverse forme e molti colori.

Andiamo ora dritti al punto: è impossibile nell’attuale contesto sociale abolire la prigione. Anche se i muri fossero fatti saltare in aria e le porte delle celle sfondate, essa riapparirebbe sotto un’altra forma finché il principio d’autorità non verrà colpito in modo decisivo. Peggio ancora: ci si può aspettare che finché ci saranno Stati (poco importa la loro forma), una ipotetica riduzione della reclusione fisica non sia possibile che attraverso una reale riduzione della libertà, vale a dire facendo attenzione a diventare noi tutti secondini e detenuti nella grande prigione della società. È questa, ad esempio, la triste tragedia delle lotte contro le sezioni di isolamento… Non possono sfociare che nella distruzione di tutte le prigioni (ovvero in una rivoluzione sociale che spazzi via il principio d’autorità a favore di esperimenti di libertà), oppure nella generalizzazione di certe misure proprie dei regimi d’isolamento in tutte le carceri e in tutte le sezioni. La distruzione decisiva delle carceri sarebbe una conseguenza, anzi, una esigenza vitale, della rivoluzione sociale che intende sbarazzarsi di ogni autorità. Bisogna allora concluderne che una lotta contro la prigione non abbia alcun senso oggi, in un’epoca in cui lo slancio rivoluzionario e libertario non soffia certo forte quanto il dominio e i suoi falsi critici autoritari? E concludere che essa sarebbe votata a priori al fallimento e alla disfatta? Se arriviamo a rispondere sì a questo interrogativo, allora non intraprenderemo mai più alcuna lotta. Poiché, in una certa misura, si potrebbe dire la stessa cosa per qualsiasi altro conflitto, per qualsiasi lotta, per qualsiasi tentativo di insorgere e dare libero corso alla rivolta, non per un mero miglioramento, né per qualche briciola in più, ma per distruggere l’autorità. Ma la sovversione, quindi la rivoluzione sociale, non è una questione di vittorie parziali o di risultati misurabili sulla scala del dominio. La distruzione del carcere non comincia da nessun’altra parte — proprio come il radicale rovesciamento di tutti i rapporti sociali esistenti — se non nel conflitto attuale, nella scelta di frantumare in mille pezzi la rassegnazione e prendere gusto alla rivolta. Ogni rifiuto di obbedire al regime carcerario e ai suoi servitori, ogni atto di rivolta, ogni momento in cui il desiderio di libertà prenda il sopravvento sulla tragedia dell’adeguamento alle condizioni, mina i muri tanto odiati.

Delinquenza e ribellione

Il romanticismo di un bandito che rompe con l’insieme delle leggi, l’ultimo combattimento eroico del fuorilegge contro i difensori dello Stato, le storie popolari dei molti Robin Hood… sono storie bellissime. Danno speranza e, in fin dei conti, non si tratta tanto di sapere se siano «vere» o meno; l’immaginario e il sogno sono forse «veri»? Eppure ispirano, incoraggiano, guidano in numerosi comportamenti, in numerose avventure, in numerosi percorsi umani.

Ma non si dovrebbe confondere questa forza magica dell’immaginazione, autentica essenza della rivolta, con l’ambiente delinquente così come esiste oggi. È abbastanza semplice: uno dei pilastri di questo mondo è il denaro. Ed esistono modi legali ed illegali per procurarselo. Ci sono ad esempio il saccheggio ed il furto legali, esercitati da e per il profitto di padroni, ricchi e potenti. Di solito ciò viene definito «lavoro salariato» (saccheggiare il corpo, l’energia e lo spirito del lavoratore), «sfruttamento delle risorse naturali» (saccheggiare la terra), «commercio» (fare denaro col denaro e monetizzare i bisogni delle persone, parassitare i loro desideri e i loro sogni trasformandoli in merci acquistabili). I modi illegali, sapendo che questo termine appartiene a coloro che ne traggono profitto, sono allora il saccheggio (prendere merci senza pagarle), il traffico di droga (monetizzare la dipendenza dei drogati), il furto e la rapina (accaparrarsi con la forza la proprietà altrui) e via di seguito. È quindi chiaro che, se anche qualcuno supera i limiti della legalità, non per questo è sul punto di sovvertire le fondamenta di questo mondo. Ma non si può gettare il bambino con l’acqua sporca.

Affrontiamo il problema da un’altra angolazione. La nostra lotta contro questo mondo di autorità e di denaro non può essere che delinquente nel vero senso della parola: perdersi e rompere con le norme dominanti. Non è immaginabile farla finita con un mondo diviso tra una minoranza di ricchi e una grande maggioranza di poveri senza far cadere dal proprio piedistallo la sacrosanta proprietà privata. L’impossibile e invivibile moralismo della proprietà privata non ha niente a che vedere con un qualsivoglia «rispetto del benessere altrui», ma ha soprattutto fatto in modo che i poveri abbiano un po’ meno scrupoli a derubarsi a vicenda o a vendersi ai ricchi, piuttosto che andare a prendere il denaro a chi si trova in alto nella scala sociale. Non è possibile sradicare la tensione delinquente dai poveri e dagli sfruttati di questo mondo, così il potere cerca di contenerla attraverso la morale, la religione, l’ideologia e la repressione. Invece di cercare di sradicare questa tensione, lo Stato ha scelto un’altra via: non più eliminare la delinquenza, ma gestirla, includerla e servirsene. Il miglior esempio di ciò è una delle maniere più facili offerte dalla società per raggranellare relativamente in modo rapido molto denaro (o perlomeno poter abbracciare questa illusone): il traffico di droga. Lo Stato gonfia i prezzi delle droghe sul mercato rendendole illegali ed approfitta così delle conseguenze ad esso favorevoli: trafficare, stimolare la trasformazione della delinquenza in impresa, tramortire le tensioni sociali con una vasta anestesia sociale e via di seguito.

Attraverso l’apparato giudiziario — e quindi la pena detentiva — lo Stato gestisce e dirige una parte di questa branca della delinquenza. Con la minaccia di inchieste e pene detentive, si assicura inoltre una vasta rete di informatori e delatori. E non dimentichiamo neanche i numerosi esempi storici in cui lo Stato arruola coloro che non esitano a infrangere le leggi per massacrare i rivoluzionari e le masse insorte. Insomma: l’ambiente delinquente o la delinquenza non possono certo essere considerati come una sorta di antipodi al potere statale o altro.

Ma, con ciò, non si è ancora detto tutto. All’interno della delinquenza esistono anche quelli che non accettano le regole del gioco e rompono con esse così come rompono con le leggi statali. Quelli che vanno a cercare il denaro laddove si trova in abbondanza e che non obbediscono come soldatini agli ordini di un qualche capo mafioso o clanico. Lungi da noi l’intenzione di costruire qui una qualche categoria di «ribelli sociali», ma questo non cancella la presenza dell’aspetto ribelle. È esattamente questo aspetto che molti vorrebbero nascondere volentieri. Lo Stato, proprio come i suoi avversari di sinistra e di destra, vuole i poveri bravi e docili. Quando il povero rompe con la sua rassegnazione e si mette alla ricerca di mezzi per cominciare l’espropriazione necessaria, è l’inizio di un possibile percorso di ribellione e di sovversione, un percorso che non viene riconosciuto da nessuna tendenza politica, proprio perché la sua conseguenza ulteriore è logicamente il rifiuto della politica in quanto modo di gestione degli individui. Mantenere viva questa tensione storica ed approfondirla è di interesse fondamentale per qualsiasi progetto sovversivo. Lungi da un’adorazione del crimine in quanto tale, si tratta qui dell’appropriazione a-legale dei mezzi per combattere la proprietà privata.

I diritti del potere

Come nella maggior parte dei conflitti sociali, i protagonisti della lotta nel e contro il carcere hanno spesso fatto ricorso a un documento vecchio di alcune centinaia d’anni: i diritti dell’uomo. Si potrebbe effettivamente affermare che tutti i regimi carcerari siano in contraddizione con i diritti dell’uomo, ma in fin dei conti ciò vale per tutto in questo mondo. Ma, non a caso, sia i potenti che i loro critici parlano tanto dei diritti dell’uomo. È nel nome di quegli stessi diritti che vengono concluse impossibili alleanze. Che ci si siede attorno a un tavolo per negoziare, per giungere a un compromesso. Il discorso che si basa sui diritti ha un solo risultato: ci riavvicina allo Stato, perché è quest’ultimo ad assegnare e proteggere l’insieme dei diritti. E quando uno dei diritti concessi viene violato, è lo Stato, o uno dei suoi settori, a stabilire la gravità di questa violazione, le eventuali soluzioni o la scelta di negare l’esistenza della violazione. I diritti sono sempre diritti dello Stato.

Prendiamo l’esempio dei diritti dei prigionieri. Questi diritti sono stati formulati e attribuiti dallo Stato o dalle direzioni penitenziarie. Essi possono quindi essere ritirati o sospesi in qualsiasi momento. La segreta o la messa in isolamento è in effetti la sospensione «legale» di tutti i diritti. Tutto ciò che i detenuti hanno ottenuto in termini di margine di manovra è stato ottenuto con la lotta. Ogni margine di manovra che non sia stato oggetto di lotta può, proprio come nel resto della società, essere abolito domani se lo Stato lo ritiene auspicabile. Tutto il chiacchiericcio sui diritti dei detenuti costringe gli eventuali conflitti futuri in una camicia di forza, una camicia che fa sì che i risultati vadano sempre a vantaggio della prigione stessa. Ciò appare chiaro nei numerosi tentativi delle direzioni di coinvolgere formalmente i prigionieri nella gestione della reclusione, facendoli partecipare alla propria oppressione. All’interno del quadro fissato, i detenuti possono allora lasciar sentire «la loro voce». E, invece di battersi, negoziano aggiustamenti.

Con ciò non vogliamo dire che questi aggiustamenti non potrebbero operare una vera differenza, ma la questione rimane sempre nel come sono stati ottenuti. Facciamo un esempio concreto per spiegarci meglio.

Esiste una differenza fondamentale fra, da un lato, dei prigionieri che rifiutano di rientrare in cella dopo la fine dell’ora d’aria al fine di rivendicare più ore di passeggiata; e, dall’altro, dei prigionieri che tentano attraverso le vie giudiziarie di far valere i loro «diritti» a più passeggiate, o che si accingono a negoziare con la direzione eventuali prolungamenti. Nel primo caso, la direzione dovrà o reprimere la rivolta o accettare il prolungamento… e, in caso di ripensamento della concessione, saprebbe di potersi aspettare altri rifiuti di rientrare in cella. Nel secondo caso, alla direzione basterebbe citare qualche obiezione legale od offrire ai prigionieri che si lamentano un semplice trasferimento verso un’altra prigione. Anche nel caso in cui questi riuscissero ad ottenere un miglioramento, nulla impedirebbe alla direzione di ritirarlo nel momento voluto, perché la sola minaccia sarebbe una nuova negoziazione e non certo una prigione in sommossa. La questione non sta quindi tanto in una opposizione fra riformismo (riforma progressiva del sistema carcerario) e rivoluzione (distruzione immediata della prigione); ma piuttosto nello sviluppo di un percorso di lotta, nella costruzione di una tensione refrattaria e nella possibilità di forgiare complicità nella rivolta condivisa. Tutto il resto sarà sempre un segno di debolezza che non otterrà altro che risultati apparenti, validi solo sulla carta.

I secondini e la responsabilità individuale

Anche se non c’è il minimo dubbio sul fatto che chi veste un’uniforme accantona una parte della sua umanità, non serve a nulla presentare i secondini come mostri disumani, capaci di qualsiasi forma di tortura e di abuso. Ciò somiglierebbe troppo ad un rovesciamento dell’immagine che la società costruisce «dei prigionieri», per essere sovversivi. È certamente vero che la maggioranza, ovvero la totalità dei secondini, dopo anni di abbrutimento e di abitudine ad esercitare l’autorità e la violenza, non sono più capaci di comportarsi altrimenti. Ma è ugualmente vero che vi sono, come si suol dire, dei secondini «umani» che di tanto in tanto si preoccupano della sorte del tale detenuto o chiudono gli occhi laddove una applicazione troppo alla lettera del regime ne comporterebbe la morte. Si può dire di loro che sono «disumani»? Inoltre, dove si situa la differenza essenziale fra il «secondino implacabile» ebbro del suo potere ed il direttore — senza uniforme e, in genere, non coinvolto personalmente negli atti di tortura e di violenza? Ecco la ragione per cui quando parliamo di «secondini» in questo testo, ci riferiamo a tutti coloro che rendono formalmente possibile il funzionamento quotidiano della prigione: secondini, psichiatri, assistenti sociali penitenziari, direttori, ausiliari, medici…

Forse bisognerebbe procedere diversamente. Invece di classificare i secondini secondo il loro grado di «umanità» — omettendo in tal modo che il sistema si fonda sia sulla brutalità che sulla carità e la benevolenza o, ancor meglio, sulla loro insopportabile combinazione — sarebbe meglio partire dal fatto che i secondini sono in tutto e per tutto «esseri umani», con tutte le contraddizioni e la complessità che ciò implica. Anche nel torturatore, l’essere umano continua ad esistere. La questione non è allora di sapere «chi si comporta in maniera accettabile e chi supera i limiti e sarà punito di conseguenza», cosa che ci condurrebbe per forza ad una visione riformista della lotta (anche se questa fosse armata), ma di sapere piuttosto in quali modi sia possibile battere i secondini che sono — proprio come i muri, le sbarre, la giustizia e la morale dominante — degli ostacoli sul cammino della libertà. Un attacco contro i secondini non diventa allora «unicamente» una questione di rappresaglia, ma una questione di come eliminare un ostacolo al nostro desiderio di libertà. Se ci saranno dei morti, non ci si nasconderà dietro la battuta «d’aver sparato su un’uniforme», ma ci si assumerà in piena coscienza la responsabilità di aver sparato su un uomo che, per la sua responsabilità individuale e la sua scelta di esercitare la funzione di difensore dell’ordine esistente, è un ostacolo per la libertà.

Ovviamente, il potere se ne frega altamente di questo genere di riflessioni etiche e della ricerca di coerenza in ciò che vogliamo e nel come lottiamo. Da parte dei potenti, non si fa mai economia di crudeltà. Ma noi non siamo come loro. Non vogliamo diventare come loro. Non siamo giustizieri che erigono patiboli per punire i colpevoli, lottiamo semplicemente con tutti i mezzi che reputiamo adeguati affinché non ci siano più patiboli né carnefici.

Non abbiamo quindi bisogno di rispedire ai secondini l’immagine di mostri che essi ci accollano — rientrando così nella lunga tradizione di coloro che presentano popolazioni intere come sotto-uomini, infami, traditori della nazione, infedeli, inferiori, allo scopo di poterli sradicare. Li considereremo per ciò che sono: uomini che scelgono giorno dopo giorno di girare la chiave nelle serrature delle celle. Non è perché non pensiamo che sia possibile «convertire» o «convincere» i carnefici che neghiamo loro la loro umanità. È questa tensione, la tensione etica verso la libertà che non vuol essere un’altra versione della «giustizia» con le sue leggi e le sue punizioni, a renderci talmente differenti e da cui traiamo la forza e il coraggio per continuare a combattere l’autorità con le armi dell’anti-autorità. Ciò ci permette del resto di passare all’attacco senza equivoci. Poiché, anche se la prigione è una macchina che riesce a distribuire all’infinito la responsabilità della tortura che è di fatto la reclusione, e assume così la fisionomia nebulosa di un tentacolare e anonimo mostro, certi personaggi possiedono paradossalmente delle responsabilità specifiche. Identificarli è di importanza vitale per qualsiasi progetto di lotta contro la prigione. Comprendere chi, dove e come tiene i fili. Chi decide di mettere in isolamento i prigionieri recalcitranti. Chi permette ai secondini di nascondersi. Chi è responsabile della decisione degli internamenti etc. Discernere queste responsabilità individuali è un compito imprescindibile dei nemici del carcere.

Il carcere e la sua mentalità

All’interno delle mura, i secondini non solo i soli ad istruirsi in materia di tecnica di dominio. I rapporti tra detenuti sono altrettanto impregnati di autorità di quelli delle persone esterne. Da un lato, il regime carcerario formalizza questi rapporti gerarchici concedendo privilegi, coinvolgendo direttamente una parte dei detenuti nella gestione del carcere e isolando certi elementi perturbatori dal resto della popolazione carceraria. Dall’altro lato, tutto nella prigione incoraggia i prigionieri ad appropriarsi delle tecniche di dominio ed a uniformarsi. I rapporti fra prigionieri non sono determinati tanto da un qualsiasi sentimento di «fratellanza» dovuto alla comune condizione, ma piuttosto dalla morale dominante di questa società: concorrenza, ricatto, racket, delazione, divisione, esclusione, commercio, rassegnazione, accettazione, anestesia, gerarchia. I momenti in cui i prigionieri insorgono sono allora quasi sempre interruzioni, superamenti di questi rapporti. L’insurrezione contro la prigione comincia laddove la delazione fa posto alla fiducia, la concorrenza alla solidarietà, la rassegnazione alla lotta. La prigione fa tutto ciò che è in suo potere per dimostrare che quelle interruzioni o quei superamenti volgono sempre al peggio per i detenuti insorti. Lo fa con le celle di punizione, l’isolamento, i pestaggi, la soppressione dei «diritti», la fine di una prospettiva di libertà condizionale, ma anche attraverso il messaggio che fa pervenire costantemente ai suoi ospiti: se stai calmo, tutto passerà più in fretta.

L’atto di insorgere, dentro come fuori, si rivela così una esigenza vitale, piuttosto che una semplice formalità per ottenere qualcosa. Non smetteremo mai di sottolineare prima di tutto il lato intimamente umano e vitale della rivolta, l’importanza che ha per l’individuo ribelle in sé.

[da Brique par brique, se battre contre la prison et son monde (Belgique 2006-2011), Tumult Editions, 2012]

 

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Il male minore

da Finimondo

Dominique Miséin

Alcuni anni or sono, in occasione di una scadenza elettorale, un celebre giornalista italiano invitò i propri lettori a turarsi il naso e a compiere il proprio dovere di cittadini, recandosi a votare per il partito allora al potere. Il giornalista era ben consapevole che all’olfatto della gente quel partito emanava il fetore di decenni di putridume istituzionale — soprusi, corruzione, malaffare — ma la sola alternativa politica disponibile sul mercato, la sinistra, gli sembrava ancor più nefasta. Non rimaneva quindi che turarsi il naso e votare per i governanti già al potere.

All’epoca, per quanto oggetto di molte discussioni, questo invito riscosse un certo successo e in un certo senso si può dire che fece scuola. Non è sorprendente. In effetti il ragionamento di quel giornalista faceva leva su uno dei riflessi condizionati sociali più facilmente riscontrabile, quello che sia la politica del male minore a guidare le scelte quotidiane della maggior parte delle persone. Messo di fronte ai fatti della vita, il buon senso comune è sempre pronto a rammentarci che fra alternative parimenti detestabili non resta che optare per quella che ci sembra meno foriera di tristi conseguenze.

Come negare che tutta la nostra vita si riduce ad essere una lunga ed estenuante ricerca del male minore? Come negare che l’ipotesi di scegliere il bene — inteso non in senso assoluto, è naturale, ma più semplicemente come ciò che si reputa tale — sia in genere scartata a priori? L’intera nostra esperienza e quella delle generazioni passate ci insegnano che il mestiere di vivere è uno dei più duri e i sogni più ardenti non possono avere che un tragico epilogo: uccisi dal suono della sveglia, dai titoli di coda di un film, dall’ultima pagina di un libro. «Così è sempre stato» — ci viene detto con un sospiro. Dal che deduciamo che così sempre sarà. 

Sia chiaro, tutto ciò non impedisce a noi tutti di cogliere la nocività di quanto abbiamo di fronte. Sappiamo di scegliere comunque un male. Ciò che ci manca — e ci manca perché ci è stata sottratta — non è tanto la capacità di giudicare il mondo che ci circonda, la cui infamia si impone con l’immediatezza di un pugno in faccia, quanto quella di andare al di là delle possibilità date. O anche solo di tentare di farlo. Così, adducendo l’eterno pretesto che si rischia di perdere tutto se non ci si accontenta di ciò che già si possiede, si finisce col trascorrere la propria esistenza all’insegna della rinuncia. È la stessa vita quotidiana, con la sua indiscrezione, ad offrirci numerosi esempi in proposito. In tutta sincerità, quanti di noi possono vantarsi di godere della vita, di esserne appagati? E quanti possono dirsi soddisfatti del proprio lavoro, di queste ore senza scopo, senza piacere, senza fine? Eppure, di fronte allo spauracchio della disoccupazione, siamo pronti ad accettare una miseria di salario pur di evitare una miseria senza salario. Ancora, come spiegare quel prolungare fino all’estremo gli anni dello studio, caratteristica assai diffusa, se non con l’ostinato rifiuto di entrare in un’età adulta in cui si avverte la fine di una già precaria libertà? E che dire poi dell’amore, di questa ricerca spasmodica di qualcuno da amare e da cui essere amati che il più delle volte si conclude con la sua parodia, quando, pur di allontanare lo spettro della solitudine, preferiamo prolungare rapporti affettivi ormai logori? Avari di stupore e d’incanto, i nostri giorni sulla terra sanno regalarci solo la noia della ripetizione seriale.

Così, malgrado i numerosi tentativi di nasconderle o almeno minimizzarle, le ferite provocate dall’odierno sistema sociale le vediamo tutti. Sappiamo tutti di vivere in un mondo che fa male. Ma per renderlo sopportabile, vale a dire accettabile, è sufficiente oggettivarlo, fornirlo di una giustificazione storica, dotarlo di una logica implacabile davanti alla quale la nostra coscienza da ragionieri non può che capitolare. Per rendere più sopportabile la mancanza di vita e il suo ignobile baratto con la sopravvivenza — la noia di anni trascorsi in ufficio, l’abbandono forzato di amori e passioni, l’invecchiamento precoce dei sensi, il ricatto del lavoro, la devastazione ambientale, e via deprimendosi — cosa c’è di meglio che  relativizzare questa situazione, paragonarla ad altre di maggiore angoscia e oppressione, cosa c’è di più efficace che metterla a paragone con il peggio?

 

Naturalmente sarebbe un errore ritenere quella del male minore una logica che si limita a regolare esclusivamente le nostre piccole faccende domestiche. Essa regola e amministra anche e soprattutto l’intera vita sociale, come ben sapeva quel giornalista. Di fatto, ogni società conosciuta dall’uomo viene giudicata imperfetta. Quali che siano le proprie idee, chiunque ha sognato di vivere in un mondo diverso da quello attuale: una democrazia più rappresentativa, un’economia più svincolata dall’intervento dello Stato, un potere non più centralizzato ma “federalista”, una nazione senza stranieri e di seguito fino alle aspirazioni più estreme. 

Ma il desiderio di realizzare il proprio sogno spinge all’azione, perché solo l’azione si propone di trasformare il mondo, cioè di renderlo simile al sogno. Agire risuona all’orecchio come il fragore delle trombe di Gerico. Non esiste imperativo che possieda un’efficacia più rude e, per chi l’intende, la necessità di venire agli atti si impone senza indugio e senza condizione. Ma chi domanda all’azione di realizzare le aspirazioni che lo animano, riceve presto strane e inaspettate risposte. Il neofita impara in fretta che un’azione efficace è quella che si limita a realizzare sogni circoscritti, cupi e tristi. Non solo le grandi utopie, ma anche gli obiettivi che sembrano più a portata di mano si dimostrano difficilmente realizzabili. Così, chi credeva di trasformare il mondo secondo il proprio sogno, si ritrova a non fare altro che trasformare il suo sogno adattandolo alla realtà più immediata di questo mondo: al fine di agire produttivamente, si vede costretto a soffocarlo. Ecco perché la prima rinuncia che l’azione produttiva domanda a colui che vuole agire è che egli riduca il proprio sogno alle proporzioni indicate da ciò che esiste. Si spiega così, in poche parole, perché la nostra è un’epoca di compromessi, di mezze misure, di nasi turati. Di mali minori, per l’appunto.

A pensarci bene, è proprio per questo che il concetto di riformismo, alla cui causa oggi tutti (si) votano, rappresenta un’espressione compiuta della politica del male minore: un agire prudente, sottoposto all’occhio vigile della moderazione, che non perde mai di vista il proprio indice di gradimento, e che procede con una cautela degna della diplomazia più consumata. La preoccupazione di evitare scossoni è tale che, quando alcune circostanze avverse li rendono inevitabili, ci si affretta a legittimarli ostentando la sciagura peggiore evitata. Non siamo forse appena “usciti” da una guerra che è stata giustificata come male minore rispetto a una feroce “pulizia etnica”, così come cinquant’anni fa l’uso delle testate atomiche su Hiroshima e Nagasaki venne giustificato come un male minore rispetto alla prosecuzione del conflitto bellico? E questo malgrado tutti i governi del pianeta dichiarino di aborrire il ricorso alla forza nella risoluzione dei conflitti. 

Già. Anche la classe dirigente riconosce la fondatezza delle critiche formulate nei confronti dell’attuale ordine sociale, di cui essa è per altro responsabile. A volte capita addirittura di trovare alcuni suoi esponenti in prima linea nel denunciare formalmente le discriminazioni delle leggi del mercato, il totalitarismo del “pensiero unico”, gli abusi del liberalismo. Anche per queste realtà, tutto ciò è un male. Ma un male inevitabile, di cui si può tentare al massimo di diminuire gli effetti. 

Il male in questione, quello da cui non ci si può liberare — lo avrete già capito —, è un ordinamento sociale basato sul profitto, sul denaro, sulla merce, sulla riduzione dell’uomo a cosa, sul potere, e che ha nello Stato uno strumento di coercizione indispensabile. Ed è solo dopo aver messo fuori discussione l’esistenza del capitalismo, con tutti i suoi corollari, che gli addetti alla politica possono interrogarsi su quale sia la forma capitalista che possa rappresentare il male minore da sostenere. Al giorno d’oggi la preferenza va accordata ad una democrazia, che non a caso viene presentata come il “meno peggiore dei sistemi politici conosciuti”. Se confrontata col fascismo o con lo stalinismo, essa ottiene facilmente l’adesione del senso comune occidentale, tanto più che la menzogna democratica si fonda sulla partecipazione (illusoria) dei propri sudditi alla gestione della cosa pubblica, che così verrebbe ad apparire perfezionabile. In questo modo diventa facile convincersi che una condotta dello Stato «più giusta», una «migliore ripartizione delle ricchezze», oppure un «più oculato sfruttamento delle risorse», costituiscono le uniche possibilità a disposizione per affrontare i problemi posti dalla nostra civiltà moderna.

Ma così facendo si omette un particolare fondamentale, vale a dire si omette di cogliere ciò che unisce nella loro essenza le diverse alternative avanzate: l’esistenza del denaro, del lavoro, del commercio, delle classi, del potere. Ci si dimentica, per così dire, che scegliere un male, seppur minore, è la maniera migliore di prolungarlo. Per riprendere gli esempi appena fatti, uno Stato «più giusto» è quello che decide di bombardare un intero paese per convincere uno Stato «più sbagliato» a cessare le operazioni di pulizia etnica al proprio interno. La differenza esiste, inutile negarlo, ma la percepiamo solo nella ripugnanza che ci ispira una logica di Stato capace di giocare con la vita di migliaia di persone, sgozzate o bombardate che siano. Allo stesso modo, una «migliore ripartizione delle ricchezze» è quella che intende evitare di concentrare nelle tasche dei soliti pochi il frutto del lavoro dei soliti molti. Ma questo cosa significa? In poche parole, che cambierà il coltello con cui i signori della terra taglieranno le fette della torta della ricchezza mondiale e che magari si aggiungerà un posto in più alla tavolata degli allegri commensali. Quanto al resto dell’umanità, dovrà continuare ad accontentarsi delle briciole. Per finire, nessuno oggi oserebbe negare che lo sfruttamento della natura abbia provocato innumerevoli catastrofi ambientali. Ma non occorre essere esperti in materia per capire che rendere questo sfruttamento «più oculato» non servirà ad impedire ulteriori catastrofi, bensì unicamente a rendere anche queste più oculate. Ma esiste una catastrofe ambientale oculata, e con quali parametri si può misurare?

 

Una piccola guerra è meglio di una grande guerra, essere plurimiliardari è meglio che essere miliardari, le catastrofi circoscritte sono meglio delle catastrofi estese. Come non vedere che, percorrendo questa strada, si continuano a perpetuare le condizioni sociali, politiche ed economiche che rendono possibile lo scoppio di guerre, l’accumulazione di privilegi, il verificarsi di catastrofi? Come non vedere che una simile politica non presenta nemmeno una minima utilità pratica, ché quando la misura è colma basta una goccia e il vaso trabocca? Dal momento in cui si rinuncia a mettere in discussione il capitalismo in quanto totalità comune a tutte le diverse forme di ordinamento politico e si preferisce passare al mero paragone fra le varie tecniche di gestione dello sfruttamento, la persistenza del male è assicurata. Non è forse vero che, davanti alla difficoltà di continuare ad imporre il sistema capitalista sotto i colori del socialismo dell’Est, è stato ripresentato sotto le vesti del liberalismo dopo aver fatto cadere il muro di Berlino? Non è forse vero che in Italia, davanti alla minaccia reazionaria di un governo di destra, si è preferito un governo di sinistra che ha surclassato il proprio avversario sul terreno stesso della reazione? Anziché porsi il problema se è il caso di avere un padrone a cui obbedire, si preferisce scegliere il padrone che bastona di meno. Attraverso questo procedimento ogni slancio, ogni tensione, ogni desiderio di libertà viene ricondotto a più miti consigli: invece di colpire le nocività che ci avvelenano, se ne biasimano gli eccessi. All’interno di questo contesto, più virulenza si usa per denunciare simili eccessi, più si consolida ciò che li produce. La piaga si richiude su questo glissamento ideologico, senza lasciare via di scampo. E fin quando la questione da risolvere sarà quella di come gestire il dominio anziché prendere in considerazione la possibilità di farne a meno e pensare a come realizzare ciò, la logica di chi ci governa e amministra continuerà a dettare le misure da prendere nei confronti di tutti.

Dopo il danno, non poteva mancare la beffa. Ad ogni giro di timone, ci viene assicurato che il risultato ottenuto non può essere peggiore di quello precedente; che la politica perseguita, sempre proiettata verso il progresso, sbarrerà la strada a quella più conservatrice; che dopo aver sopportato in silenzio tante difficoltà, ora siamo infine sulla strada giusta. Di male minore in male minore, gli innumerevoli riformisti che affollano questa società ci conducono così di guerra in guerra, di catastrofe in catastrofe, di sacrificio in sacrificio. Ed è accettando questa logica mortificante di ragione spicciola e di sottomissione quotidiana allo Stato che — a forza di fare calcoli, di soppesare tra male e male — si può arrivare un giorno a mettere sul piatto della bilancia la propria stessa vita: meglio crepare subito, che continuare a languire su questa terra. Deve essere questo il pensiero che arma la mano del suicida. A furia di turarsi il naso per votare a favore del potere, si finisce con lo smettere di respirare.

Come abbiamo visto, restare nell’ambito del male minore non pone troppi problemi; il problema comincia nel momento in cui si esce da questo ambito, nel momento in cui lo si distrugge. Basta osservare che tra due mali il peggiore è sceglierne uno, ed ecco la polizia bussare alla porta. Se si è nemici di qualsiasi partito, di qualsiasi guerra, di qualsiasi ricco, di qualsiasi sfruttamento della natura, non si può che risultare sospetti all’occhio dell’autorità. In effetti, è qui che comincia la sovversione. Rifiutare la politica del male minore, rifiutare questo istinto che induce a conservare la propria esistenza invece di viverla, porta necessariamente a mettere in gioco ogni cosa in quanto il mondo reale e le sue “necessità” perdono di significato. Non che l’Utopia sia immune alla logica del male minore, no di certo. Durante i periodi rivoluzionari è proprio in questo modo che sono stati fermati gli assalti degli insorti: quando infuria la tempesta e le ondate minacciano di spazzare via tutto, c’è sempre qualche rivoluzionario più realista del Re che si affretta a dirottare la rabbia popolare verso rivendicazioni più “ragionevoli”. Dopo tutto, anche chi vuole mettere sottosopra questo mondo ha paura di perdere tutto. Anche se di quel tutto, non c’è nulla che davvero gli appartenga.

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19 aprile 2013 – Presentazione di “L’anarchia selavaggia” di Pierre Clastres @ Circolo Pink (VR)

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Libertà

da Finimondo

«Cento volte respinti, intraprendiamo per la centunesima volta l’attacco. Veramente! questi sono cattivi profeti, che proclamano la morte dell’anarchismo! Finché esisteranno sfruttamento e servitù, esso non potrà morire».
Con queste parole un giornale anarchico iniziò la sua pubblicazione più di cent’anni fa a Zurigo, e queste sono le parole con cui anche noi vogliamo iniziare il nostro Aufruhr (tumulto, rivolta). I tempi sono cambiati, e con essi anche le forme di servitù, tuttavia la nostra idea di libertà senza compromessi è rimasta la stessa. Una libertà che è inconciliabile con qualunque forma di dominazione, sia essa dittatoriale o democratica, brutale o sottile, materiale o mentale. Ed è questo desiderio ardente di libertà, non come lontano ideale, ma qui e adesso, che ci porterà eternamente sul sentiero della ribellione…

Un compagno d’avventura di Spartaco

Come molti, se non quasi tutti, siamo per la libertà. Ma allora, visto che la nostra società pretende basarsi sul principio di libertà, perchè ci troviamo e ci troveremo sempre in conflitto con essa?
Questo conflitto, che del resto è sempre esistito in forme differenti, nasce da una comprensione radicalmente differente del significato di libertà; parola che, nel corso della storia, ha sempre destato confusione in quanto ha assunto significati differenti a seconda del contesto sociale e delle persone che l’hanno utilizzata.
Se volgiamo lo sguardo al passato, possiamo vedere come nell’antichità, nelle società greca e romana, la libertà corrispondesse per una parte della popolazione al concetto di cittadino (della polis o della Repubblica). Un uomo considerato libero era quindi un uomo che partecipava alla vita politica della società; ad esempio nelle polis greche, fonti d’ispirazione della nostra moderna democrazia, l’uomo libero partecipava alle assemblee, funzionanti con un sistema di democrazia diretta, per decidere del destino della propria città. L’uomo libero per esistere necessitava però del suo opposto, lo schiavo: un individuo che non essendo considerato un essere umano non poteva decidere della propria vita e che tramite il proprio lavoro liberava l’uomo libero del tempo necessario per “fare politica”. Per un’altra parte della società, quella degli schiavi, la libertà assumeva invece un significato differente. Questo significato non stava nel diventare cittadini, ma al contrario nella negazione della propria condizione di schiavi, una negazione che implicava anche la negazione dello stesso concetto di cittadino; esso consisteva nel riottenere la facoltà di poter decidere della propria vita. Queste idee contrastanti di libertà furono alla base delle insurrezioni degli schiavi che hanno caratterizzato soprattutto l’epoca romana, in cui per gli schiavi gli unici modi di negare la propria condizione erano o la fuga o la ribellione aperta, armi alla mano, contro la società.
Anche se sicuramente molte cose sono cambiate, al giorno d’oggi ci troviamo di fronte allo stesso dilemma.
Da una parte il significato di libertà viene definito all’interno della nostra società come possibilità limitate e garantite dalla stessa società attraverso leggi generali o una morale comune. Possibilità che, come si può facilmente intuire, dipendono dalla nostra posizione all’interno della società (posizione sociale, prestigio), che aumentano con la nostra disponibilità di denaro e con il nostro status sociale: chi è più ricco ha più possibilità (materiali, culturali e di svago), differenti da quelle di chi non possiede niente che viene condannato alla sopravvivenza e all’assenza di vere e proprie scelte. Chi non accetta la propria miseria e si ribella contro l’attuale stato di cose, viene isolato e imprigionato. La libertà degli uni significa quindi la privazione di libertà e lo sfruttamento degli altri.
Dall’altra parte invece abbiamo la libertà, di cui parliamo noi anarchici, che è qualcosa di totalmente differente. Non si tratta di un aumento delle scelte possibili ma, al contrario, dell’espressione di tutte le possibilità, possibilità differenti, che possono schiudersi nel rapporto con gli altri. Si tratta quindi di un assoluto e non di un concetto quantificabile, una totalità o, in parole più semplici: o si è liberi o non lo si è. Non si può essere più o meno liberi, come per uno schiavo una catena più lunga non può significare essere meno schiavo. La nostra libertà è qualcosa che non può essere rinchiusa all’interno di leggi e regole valide per tutti, ma qualcosa che nasce dal libero accordo tra individui.
Com’è facile comprendere, una libertà simile non può esistere senza mettere in discussione il mondo in cui viviamo ogni giorno e scontrarci con esso. Questa è la stessa constatazione che hanno fatto, più di duemila anni fa, Spartaco e i suoi compagni d’avventura mentre si ribellavano contro la Repubblica romana. Una lezione del passato, da cui forse ancora oggi possiamo imparare qualcosa…

[Aufruhr, n. 1, Zurigo, novembre 2012]

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Bergamo. Strumentalizzazione di uno stupro

Riceviamo e pubblichiamo un comunicato in merito allo stupro avvenuto di recente a Bergamo.

 

In questi giorni sta facendo molto clamore l’orribile stupro commesso nei confronti di una donna a poche centinaia di metri dalla questura di Bergamo. La stampa locale sta banchettando e gongolando con questa macabra notizia di cronaca: negli ultimi giorni ci sono stati forniti più dettagli sulla vita personale della ragazza e sulla terribile situazione che l’ha vista, al contempo, essere vittima di una violenza umana e vittima di uno sfruttamento a fini mediatici.
Più voci si sono alzate reclamando “più sicurezza” e “maggiore intervento delle forze dell’ordine”, accusando e denunciando il “mostro straniero” – che è bianco e, addirittura “parla l’italiano” – invocando da subito sui social network punizioni esemplari e soprattutto indignandosi  per la terribile scoperta che la città-vetrina di Bergamo in realtà nasconda anche persone che prevaricano le donne, le sottomettono, le usano come oggetto sessuale. Nello stesso istante le stesse voci si sono subito mobilitate per chiarire che l’evento è stato isolato, che non ci sono
emergenze di “mostri stupratori” a Bergamo, che la città è tranquilla e sicura.
Peccato che non si tenga conto di tutte quelle donne che, all’interno delle loro mura domestiche o sul posto di lavoro, vivono situazioni di privazione della propria identità: sottomesse dai propri partner/mariti e datori di lavoro; costrette a subire violenze psicologiche e fisiche; a mascherare lividi; a vivere nel terrore familiare e con la paura di apparire sbagliate, ingrate; con la certezza di non essere capite/sostenute dai benpensanti vicini, concittadini e compaesani.
Peccato che la cultura dominante sia quella patriarcale, maschilista, cattolica e prevaricatrice che legittima quotidianamente l’uso della donna e del suo corpo come oggetti sessuali. Cultura dominante che subito mette in discussione la gravità di una violenza in base all’abbigliamento tenuto dalla donna, alla nazionalità dell’aggressore, alla forzatura nel “sentirsi sicura a tornare alla macchina da sola a tarda notte” e tante altre misere giustificazioni per far intendere, in maniera sottesa, che forse se l’era cercata.
Di fronte a questa situazione le smargiassate, lo spray al peperoncino per i vigili e  l’invocare più telecamere hanno solo l’effetto di creare un clima di maggiore insicurezza per la popolazione generale. La sicurezza nelle strade non può essere garantita da coprifuochi o delegata alla presenza delle guardie: le strade sono sicure quando sono vive, frequentate e si creano rapporti di amicizia e solidarietà. La necessità è quella di abbandonare la diffidenza e il timore del prossimo e unirsi alla lotta per costruire una cultura di rispetto verso la donna e verso ogni essere vivente.
La “maggior sicurezza” è solo un alibi per mascherare l’aumento del controllo sociale a cui ognuno è sottoposto. Il continuo delegare alle forze dell’ordine, spesso colpevoli di violenze verso le migranti detenute nei CIE e verso donne rinchiuse nelle carceri e nelle caserme, è un chiudere gli occhi davanti alla realtà in cui lo stupro è troppo spesso usato come tortura e metodo per piegare la forza e la dignità della donna.
Non lasciamo che altri si preoccupino di cambiare questa cultura sessista, lottiamo nel quotidiano per autodeterminarci e liberarci dalle oppressioni che ci limitano nella vita e nelle scelte.
Non siamo gli oggetti sessuali ad uso e consumo di qualcuno, come quotidianamente lasciano intendere i media;
non limitiamoci a reprimere il singolo gesto ma, piuttosto, ricerchiamo ed estirpiamo le cause che l’hanno generato e che continueranno ad alimentare le violenze di genere!

SOLIDARIETÀ CON TUTTE LE VITTIME DI VIOLENZE E STUPRI!
RIPRENDIAMOCI LE NOSTRE VITE CON IL FINE DI SCARDINARE
QUESTA CULTURA IMPERANTE!

Anarchiche e anarchici della Malpensata

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Atene, la situazione dei/lle 92 arrestat* di Villa Amalias

Non si ferma la solitarietà ai/lle 92 occupanti di Villa Amalias, arrestat* mercoledì dopo il nuovo sgombero della ri-occupazione. Oggi, più di 10.000 persone hanno sfilato dall’università di Atene fino al tribunale di Evelpidon. Solidarietà anche dall’estero, da USA, Austria, Irlanda e Inghilterra.
Contrainfo.espiv.net comunica che circa alle 22.28 tutt* i/le 92 compagn* sono stat* liberat*

LA PASSIONE PER LA LIBERTA’ E’ PIU’ FORTE DI TUTTE LE CELLE

COMUNICATO: 11/01/2013

Dopo gli avvenimenti repressivi di ieri, dopo l’evacuazione della rioccupata Villa Amalias e l’arresto dei 92 compagni/e che avevano partecipato alla rioccupazione, dopo l’evacuazione dell’occupazione simbolica della sede centrale degli uffici della DIMAR (“Sinistra Democratica”) e il fermo dei 38 compagni/e, dopo l’evacuazione dell’occupazione di Patission 61& Scaramanga e l’arresto di 8 compagni, la giustizia “imparziale” ha mostrato i suoi denti.

Dopo la nostra detenzione per più di 24 ore in questura, abbiamo incontrato oggi il procuratore, accusati di due reati minori e un crimine.

Nei tribunali di Evelpidon, il procuratore confermando il suo ruolo, visto che ha rifiutato di avviare il processo, con la scusa della mancanza delle prove accusatorie, ha rinviato il tutto a sabato (oggi – n.d.r.) mattina. È chiaro che alla mancanza di prove (o anche la mancanza di reato) si stia cercando di sopperire accusandoci duramente, con qualsiasi sacrificio, in modo da placare il battuto sulla rioccupazione di Villa Amalias, spina nel fianco della polizia.

Dichiariamo apertamente che non faremo un passo indietro, che non ci facciamo intimorire né dalla repressione della polizia, né dalle acrobazie giudiziarie.

Dalle celle di detenzione di GADA (quartier generale della polizia – n.d.r.) solleviamo i nostri pugni, salutando le migliaia di solidali che negli ultimi due giorni si sono riversati per le strade, al di fuori del quartier generale della polizia (GADA) e del tribunale di Evelpidon, inviando un messaggio di lotta e resistenza.

Invitiamo tutte le persone del mondo della resistenza e della lotta a partecipare alla manifestazione di solidarietà alle 12:00 presso Propilea, Sabato 12/01, per dare un’altra risposta massiccia e dinamica all’arroganza del potere.

NEMMENO UN PASSO INDIETRO

TUTTO CONTINUA

I/Le 92 arrestati/e di Villa Amalias

PS. E un’altra cosa… Le uniche persone che possano parlare dei fatti della rioccupazione siamo noi 92 arrestati, certamente non i pappagalli dei media.

 

 

 

 

 

 

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Solidarietà alla Baracca Occupata

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Apprendiamo che stamattina all’alba si è proceduto allo sgombero della sede del collettivo Baracca Occupata Autogestita in via Marzolo a Padova.

Nei confronti di chi ricerca spazi di libertà e autogestione la risposta dell’amministrazione cittadina, del rettorato, della questura, della disinformazione, e di tutte le altre necrosi della  società è sempre la repressione vestita in antisommossa.

Le idee non si sgomberano.

Solidarietà ai/lle compagn* della Baracca.

Le libertà non vengono date. Si prendono
P. Kropotkin

Gruppo Libertario La Formica

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