Ciò che l’occhio vede la mano afferri

da Finimondo.org

La materia infiammabile della proprietà
fece scoppiare l’incendio della rivoluzione
Max Stirner
 
 

Lo dice la Chiesa con il settimo comandamento (non rubare). Lo dice lo Stato con gli articoli 624 e 628 del codice penale (che sanzionano il furto e la rapina). Ogni forma di autorità, divina o terrena, ha sempre proibito agli esseri umani di allungare le mani sulla proprietà altrui. Eppure, lo stesso concetto di proprietà privata non è forse un’invenzione relativamente recente?
Lasciamo pure perdere la preistoria, in cui il possesso permanente ed istituzionalizzato era non solo impensabile, ma reso impossibile dallo stesso nomadismo praticato all’epoca dall’essere umano. Osservando la storia, sia antica che moderna, appare comunque chiaro che l’atteggiamento nei confronti della proprietà privata è cambiato col mutare delle epoche e delle culture. Se nell’antichità la proprietà era presente ed accettata, essa era pur sempre guardata con una certa ostilità, sospettata di essere causa di discordia, violenze e guerre. Filosofi e scrittori la consideravano una sorta di male necessario cui non si può rinunciare se si vuole condurre una vita dignitosa, ma da contenere il più possibile. Parecchi non avevano dubbi sulla maggiore libertà in cui vivevano gli esseri umani prima del suo avvento, e non mancarono uomini politici che ne ammettevano senza reticenze l’assoluta innaturalità. La proprietà era una specie di triste conseguenza del peccato originale. Necessaria allo Stato, non lo era affatto alla felicità dell’essere umano.
Infatti, nel cristianesimo nascente, assai forte era il disprezzo per il denaro e la demonizzazione della ricchezza. Essendo Dio il creatore dell’universo, era considerato il solo proprietario di ogni cosa, che veniva concessa in possesso a tutti gli esseri umani indistintamente.
Dagli Atti degli Apostoli: «Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore…» (2,44-46). Questo stile di vita basato sulla solidarietà e l’uguaglianza, associato all’esempio della cacciata dei mercanti dal tempio, avrebbe ispirato nel Medio Evo non poche rivolte millenariste. Per secoli l’arroganza dei ricchi e dei potenti, nel proclamare di proprio esclusivo dominio ciò che apparteneva a tutti, ha dovuto scontrarsi con una certa resistenza, teorica e pratica.
La proprietà privata a noi nota, quella che conosciamo nel sistema capitalistico in cui siamo nati e cresciuti e che perciò viene percepita quasi come si trattasse di qualcosa di “naturale”, risale di fatto a pochi secoli or sono. È solo a partire dal 600 che inizia a diffondersi, grazie a pensatori come Locke, l’idea secondo cui la proprietà è un fatto di natura e un diritto inviolabile di ogni cittadino. Nonostante una certa critica illuminista, la giustificazione della proprietà non ha più cessato di accompagnare l’essere umano. La ricchezza è diventata un bene assoluto, e il capitalismo il migliore dei mondi possibili. Oggi la proprietà privata è considerata in tutti i paesi un vero e proprio diritto sacro e naturale, assoluto e irrinunciabile, necessario e inviolabile, degno di essere tutelato con la forza delle idee e protetto con la forza delle armi.
Eppure il desiderio di un mondo in cui tutto sia a disposizione di tutti è fonte di secolari rivolte nonché musa di ricorrenti utopie. Naturalmente i guardiani di questo ordine sociale pretendono che l’assenza di proprietà sia solo un mito preistorico o una illusione futuristica. E a dimostrazione di questo assunto ci ricordano tutta la miseria del presente in cui regna la peste del profitto. Inutile negare che gli oggetti abbiano perduto da tempo immemore il loro valore d’uso a favore di quello di scambio e che oggi siamo circondati da una miriade di merci destinate ad essere comprate e vendute.
Dal possesso si è passati alla proprietà, dalla prodigalità si è passati al calcolo ed il commercio ha ridotto il dono ad eccezione da praticare solo nelle festività. Tuttavia questo lungo processo di addomesticamento non è avvenuto senza opposizione, opposizione che in un’altra epoca assumeva non di rado una dimensione collettiva, mentre in tempi più recenti si manifesta per lo più a titolo individuale.

Ciò che l’occhio vede la mano afferri è fin dal Medioevo il grido di battaglia di chi aspira ad una società senza denaro. Nessun comandamento divino, nessun articolo di codice penale — la coscienza moderna di una umanità senza più coscienza — riusciranno mai a frenare l’assalto al banchetto della vita.
Quando lo stomaco urla la sua fame, quando il cuore grida la sua disperazione, perché mai l’individuo dovrebbe cadere nella rassegnazione anziché elevarsi nella rivolta? Che i poveri rubino ai ricchi, è un’ovvietà impossibile da arginare se non con le manette e il patibolo. Già nel XVII secolo il casista Antonino Diana arrivava a giustificare il furto in caso di «necessità grave», scatenando le ire del vescovo Juan Caramuel Lobkowitz il quale sosteneva che, se fosse bastata l’indigenza a legittimare il “crimine”, la società intera ne sarebbe stata sconvolta. Due secoli dopo, nell’Ottocento, uno scrittore licantropo avrebbe fatto notare che «il grande commercio depreda il negoziante, il negoziante depreda il bottegaio, il bottegaio depreda l’artigiano, l’artigiano depreda l’operaio e l’operaio muore di fame». Continua a leggere

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Per un natale nero

La crisi economica e finanziaria voluta dai padroni non accenna a ritirarsi e le politiche governative di austerità rappresentano ancora una volta la spada di Damocle sulla testa degli oppressi. Povertà in aumento, sempre più persone senza lavoro e senza casa, repressione sempre più forte nei confronti di chi lotta contro ciò che ogni giorno ci annulla come uomini; animali non-umani brutalmente uccisi per essere mangiati e indossati, terra devastata in nome del profitto ad ogni costo e della crescita sfrenata, guerre, discriminazione e violenze d’ogni sorta…
Eppure tutti verso la fine dell’anno diventano più buoni. Così insegna il catechismo della riconciliazione consumistica: a natale tutti a consumare, tutti nei negozi, con la frenesia, la pelosa carità nel cuore e la tredicesima nel portafoglio.
Noi non ci stiamo: non vogliamo essere più buoni, non vogliamo stare tranquilli, nella “tregua” natalizia che riconcilia temporaneamente sfruttati e sfruttatori, sotto il segno di una festa religiosa e consumistica. Vogliamo tenere gli occhi ben aperti, riconoscendo e combattendo senza soluzione di continuità l’autorità e i suoi soprusi quotidiani. Finchè questa società infame continuerà ad esistere, non potrà che esserci conflitto tra sfruttati e sfruttatori, tra lo Stato e gli amanti appassionati della libertà.
Buon natale un cazzo!

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12 dicembre 1969 – Strage di Piazza Fontana. Il vero volto dello Stato

da A-Rivista Anarchica, anno 42, n.8, novembre 2012

La strage e la nebbia

«Erano le 16.30 circa di venerdì 12 dicembre 1969.
Nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano si stavano svolgendo per antica consuetudine le contrattazioni dei fittavoli, dei coltivatori diretti e dei vari imprenditori agricoli ivi convenuti dalla provincia per discutere i loro affari commerciali ed attendere al compimento delle operazioni bancarie presso gli sportelli, allorché vi echeggiava il fragore dell’esplosione di un ordigno di elevata potenza.
Ai primi accorsi da Piazza Fontana, che dà accesso al salone, l’interno della Banca offriva subito dopo un raccapricciante spettacolo: sul pavimento del salone, che recava al centro un ampio squarcio, giacevano, fra calcinacci e resti di suppellettili, vari corpi senza vita ed orrendamente mutilati, mentre persone sanguinanti urlavano il loro terrore […]. Quattordici erano i morti (aumentati a sedici entro il 2 gennaio con il decesso dei feriti Scaglia Angelo e Galatioto Calogero, morti per le gravi ferite riportate) […]. Gravemente feriti restavano all’interno della sede bancaria altri quarantacinque clienti.
Vari feriti contava anche il personale della banca: tredici elementi che lavoravano al pianterreno nel salone; quattordici al primo piano, cinque al secondo piano; uno al terzo.
Gli effetti dell’esplosione riguardavano anche l’esterno dell’istituto. Riportavano, infatti, lesioni personali sette persone che si trovavano sul marciapiede di Piazza Fontana e due persone nell’interno del ristorante “L’Angelo” sito dietro l’edificio bancario».
Così i giudici della Corte d’Assise di Catanzaro, nella sentenza del 23 febbraio 1979, descrissero lo scenario di quella sera del 1969, che ci sembra oggi così lontana. Dal 1979 al 2005 si sono svolti ben nove processi per tentare di giungere alla verità, ma non si è arrivati a una verità giudiziaria.
Era dalla fine della seconda guerra mondiale che non accadeva un simile massacro di cittadini inermi, intenti in una normale attività quotidiana nella seconda città del paese.
Il 15 dicembre, quattordici bare sfilarono tra le vie di Milano per dare l’ultimo saluto a familiari, amici e cittadini accorsi in Piazza Duomo. Tutta la città si tolse il cappello man mano che il corteo funebre avanzava. C’erano studenti, pensionati, impiegati, operai usciti in anticipo dalle fabbriche e donne pie che veloci si facevano il segno della croce.
A organizzare la strage ed altri attentati fu una cellula veneta, operante a Padova, di «Ordine Nuovo», un’organizzazione estremista di stampo neonazista. Franco Freda e Giovanni Ventura, appartenenti alla cellula terroristica padovana, non vennero condannati per la strage di Piazza Fontana, nonostante l’inchiesta del giudice Salvini, negli anni Novanta, abbia portato alla luce nuove prove a loro carico. I due imputati erano stati dichiarati responsabili della strage e condannati all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Catanzaro nel 1979. Tale verdetto venne ribaltato in appello nel 1981: Freda e Ventura furono assolti per insufficienza di prove dall’accusa di strage. Il 10 giugno 1982 la Corte di Cassazione annullò la sentenza ma nel 1985 a Bari la Corte d’Assise d’Appello dichiarò nuovamente l’assoluzione degli imputati per insufficienza di prove. Questa sentenza fu confermata definitivamente nel 1987 dalla Cassazione.
Il principio ne bis in idem, ovvero che le stesse persone non possono essere giudicate due volte per lo stesso reato quando sono state assolte con una sentenza passata in giudicato, ha consentito a Freda e Ventura di rimanere impuniti.
Vennero accertati i depistaggi portati avanti da alcuni membri dei servizi segreti. Furono condannati Gianadelio Maletti, dal 1971 al 1975 capo dell’ufficio D del Sid (Servizio Informazioni della Difesa) e Antonio Labruna, ufficiale dei carabinieri in forza al Sid, per l’azione di depistaggio e occultamento di prove.
La strada per la verità fu ulteriormente intralciata dal continuo spostamento del processo che riguardava la strage milanese tra le varie procure italiane e la mancata unificazione con processi che interessavano questioni ad essa collegate causando un continuo andirivieni di materiale che dilaterà i tempi dei processi.
L’espressione «strage di stato», utilizzata per indicare l’attentato del 12 dicembre 1969, deriva dal fatto che ci fu una collusione tra alcuni settori degli apparati statali e gli attentatori.
L’obbiettivo di coloro che compirono la strage era cercare di sovvertire l’ordine pubblico, in modo da creare le condizioni per una involuzione autoritaria della politica italiana. A tale scopo bisognava fare attribuire la strage all’estrema sinistra in modo che l’opinione pubblica accettasse una vasta azione repressiva.
La nebbia di Milano non ha ancora restituito la pace a quelle famiglie che aspettano di sentire i nomi di coloro che progettarono e attuarono questa carneficina che si portò via i loro cari. Forse nomi sentiti troppe volte, ma mai accompagnati dall’aggettivo «colpevole».

La pista anarchica

Cesare Vurchio e Giuseppe Pinelli al Circolo
anarchico “Ponte della Ghisolfa”

La stessa sera degli attentati il prefetto di Milano, Libero Mazza, inviò al presidente del consiglio, Mariano Rumor, un fonogramma: «Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarcoidi aut comunque frange estremiste. Est già iniziata […] vigorosa azione rivolta at identificazione et arresto responsabili». Continua a leggere

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Padova. Torture democratiche

da Umanità Nova, n.38, anno 92, dicembre 2012

Lunedì 26 novembre il maresciallo Claudio Segata, l’appuntato Daniele Berton e il carabiniere Giovanni Viola hanno patteggiato nel processo che li vedeva accusati di sequestro di persona e violenza privata. L’inchiesta era partita con la morte di Abderrahman Salhi, un ventiquattrenne di origine marocchina ritrovato privo di vita nelle acqua del fiume Frassine presso Montagnana (Padova). Durante il processo è emerso che era abitudine dei militari prelevare le persone segnalate come ubriachi molesti e “rinfrescargli le idee” nelle acque gelate del fiume. Le vittime di questa tortura erano sopratutto persone di origine straniera. Salhi era stato prelevato da Segata e Viola durante la “Festa del Prosciutto”. Di lui non si erano più avute notizie per nove giorni, fino al 24 maggio 2010, quando era stato ritrovato morto. L’autopsia ha appurato che la morte del giovane è avvenuta per una caduta accidentale nel fiume avvenuta alcuni giorni dopo al “trattamento speciale” ad opera dei gloriosi militi ma ha anche portato alla luce la pratica a cui questi erano avvezzi grazie alla testimonianza di altre vittime di questa tortura vera e propria. Segata e Viola hanno patteggiato rispettivamente due anni e un anno e dieci mesi (con pena sospesa) per concorso in sequestro di persona e violenza privata mentre Berton ha patteggiato trecento euro di multa per non aver denunciato le pratiche portate avanti dai colleghi. L’appuntato scelto Canazza, anche lui accusato di omessa denuncia, invece ha deciso di andare a processo regolare e di non patteggiare. L’avere indosso una divisa equivale spesso a sentirsi non solo intoccabili ma provvede anche ad un’auto-legittimazione nel ruolo di “giustiziere” e non serve aver studiato a Stanford per capirlo: basta osservare la cronaca. Questi fatti non sono un eccesso frutto della mente malata e sadica di qualche “mela marcia” ma sono la naturale e ovvia conseguenza dell’aver consegnato il monopolio della forza nelle mani dello stato e dei suoi sgherri. La retorica delle mele marce non regge più di fronte a tutti i casi in cui membri delle forze dell’ordine torturano, ammazzano, stuprano, pestano persone più o meno colpevoli o innocenti. Non serve fare qua un elenco delle centinaia di persone ammazzate negli ultimi decenni da queste “mele marce” che non sono altro che il frutto marcio dell’albero marcescente dell’autoritarismo.

Gert dal Pozzo

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Il Potere: ecco il nemico! Come e perché tutte le Rivoluzioni non abbian realizzate le aspirazioni popolari

Bruno Misefari

I

Donde comincia e da chi è compiuta una Rivoluzione?

Un’educazione intellettuale, fatta di superficialità, ci addita a prima vista i filosofi quali fonte di ogni movimento rivoluzionario e quindi d’ogni progresso. Ma un analizzatore profondo ne scopre invece il popolo. Il filosofo, per lui, non è che la voce autorevole delle aspirazioni d’un popolo.

Platone e Aristotele infatti sacrificano l’uomo allo Stato; perché? perché tali erano ai loro giorni le greche istituzioni.

Locke riconosce la sovranità della nazione sul monarca; perché? perché egli viveva all’epoca della Rivoluzione inglese. Gli enciclopedisti abbattono ogni privilegio feudale e regale, e riconoscono la sovranità popolare in senso democratico; perché? perché vivevano in epoca in cui tali pensieri, lanciati dalla Rivoluzione inglese, erano già latenti nel popolo. Dopo la Rivoluzione del 1793, sono cangiate le condizioni popolari, e cangiano le idee: sorgono Babeuf, Proudhon, Godwin, Saint-Simon, Fourier, Marx, Bakunin; e con essi la odierna corrente di idee comuniste: l’autoritaria e l’anarchica.

Ed è logico!

Che cosa è una Rivoluzione, se non un periodo più o meno lungo di evoluzione, se non il compimento d’una evoluzione?

Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo col suo corteggio di odi, di lotte, di delitti, di vergogne e d’onte senza nome, provoca uno squilibrio fra le aspirazioni naturali al soddisfacimento dei bisogni degli uomini e la realtà esistente.

Le sofferenze sono inaudite, ed ognuno mal sopporta il presente. L’equilibrio deve essere ricomposto in un moto verso il passato e verso l’avvenire. La stasi, la passività è impossibile. Allora, allora soltanto, vediamo il popolo avanzare delle esigenze; e allora, allora soltanto vediamo sorgere il Pensatore prima e l’Eroe dopo. Il Pensatore organizza e raggruppa le condizioni e le esigenze del popolo, e le lancia abbaglianti di genio attraverso il mondo, a monito supremo verso i tiranni; mentre l’Eroe le afferma col gesto e col sacrificio. L’Idea Rivoluzionaria è nata così, prima nel popolo, poscia è passata nei filosofi.

Dal principio del mondo fino ai giorni nostri, dunque, sono le idee che procedono dai fatti e non i fatti dalle idee. E questo dimostra non solo quanto sia assurdo il concetto di alcuni che le rivoluzioni si facciano prima nel pensiero e poi nella realtà; ma dimostra anche ad evidenza e sopratutto che le rivoluzioni incominciano sempre nel popolo. Continua a leggere

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1 dicembre 2012 – La natura libertaria del pensiero di Albert Camus // incontro con Alessandro Bresolin

sabato 1 dicembre 2012

ore 17.30 @ Ateneo degli Imperfetti

Via Bottenigo 209, 30175 Marghera (VE)

incontro con
Alessandro Bresolin
saggista e curatore di antologie e testi di Albert Camus

introduce
Piero Brunello
docente di Storia Sociale Università di Venezia

Fernando Gòmez Pelàez, direttore della rivista anarcosindacalista della CNT Solidaridad Obrera negli anni del dopoguerra, ebbe modo di frequentare assiduamente Albert Camus, e così lo ricordava: «Camus aveva un’idea molto concreta – mediterranea, potremmo dire – della Spagna, paese con il quale aveva dei legami familiari […] In verità, ci ha aiutato come si aiutano i membri di una famiglia nel momento del bisogno, generosamente e in diversi modi, dal più visibile al più discreto: in tribunale, attraverso la scrittura, ma anche mettendoci a disposizione la sua agenda degli indirizzi, prodigandosi di consigli, cedendoci i diritti di alcuni suoi testi, sostenendoci finanziariamente […]. Camus era quel tipo di uomo, raro, che non riceveva alcuna pubblicità o gloria dai suoi gesti di solidarietà. Insisteva, al contrario, perché non si sapesse che fosse lui all’origine dell’invio di tale o talaltra somma di denaro per aiutare un compagno imprigionato o la sua famiglia. Brassens agiva allo stesso modo, senza chiedere nulla in cambio, tranne il silenzio». Questa testimonianza rappresenta l’incipit ideale per cercare di ricostruire il percorso umano e politico di Albert Camus svelando così il suo carattere intimamente libertario e sarà nel contempo il filo conduttore
dell’intervento di Alessandro Bresolin.

Laboratorio Libertario
Ateneo degli Imperfetti

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Padova, 4 novembre 2012 // “Facciamo la festa” al militarismo

Domenica 4 novembre, come ogni anno, verrà celebrata in tutta Italia il Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate, in occasione dell’anniversario della fine della prima guerra mondiale (4 novembre 1918), dopo la firma dell’armistizio a Villa Giusti, situata nella provincia di Padova. Nel corso degli anni, tale ricorrenza (prima era “festa”, oggi solo “giornata”: ma nulla è cambiato) è stata accompagnata da partecipate celebrazioni in piazza, così come dall’apertura al pubblico delle caserme, esposizioni di armamenti e mostre sulla Grande Guerra. Insomma, al posto di essere entrata nel cuore di tutti come giornata di lutto per quel macello insensato di una generazione intera e di un continente intero, questa è stata vergognosamente strumentalizzata dalle istituzioni civili e militari per i propri interessi di propaganda e di costruzione artefatta di (in)coscienza storica.

A Padova sono in programma una cerimonia principale, la quale si svolgerà nei pressi di Palazzo Moroni, e diverse iniziative nei vari quartieri cittadini. Ritenendo lotta antiautoritaria e antimilitarismo non disgiungibili, essendo il secondo parte della prima, lanciamo per la giornata di domenica un’iniziativa di volantinaggio davanti a Palazzo Moroni (e, perché no, anche dentro se possibile!), a partire dalle ore 9.

Padova, 4 Novembre 2012 – Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate

CHI FA LA GUERRA NON VA LASCIATO IN PACE

“Il patriottismo è un sentimento artificiale e irragionevole, funesta origine della maggior parte dei mali che desolano l’umanità. Tutti i governi, con una sfacciataggine sorprendente, hanno sempre affermato e affermano che i preparativi militari e le guerre stesse sono necessarie per mantenere la pace” L. Tolstoj

La nostra è una società in cui fare e preparare la guerra pare cosa normale – né più né meno che cent’anni fa. Normale come portare i propri figli alle parate militari per applaudire assassini e strumenti di morte. Normale come questa giornata, che festeggia l’esercito e l’unità nazionale al posto di celebrare il lutto di vedove di guerra, di madri, di figli e figlie, di fratelli e sorelle, di ogni tempo e in tutto il mondo. La nostra è una cultura militarista condivisa, inspiegabilmente sopravvissuta a guerre mondiali, fascismo e guerre globali, e loro diretta e colpevole connivente.

Le nostre vite sono quotidianamente investite da un processo di militarizzazione imposta. E non è solo una questione “di camionette”, che vediamo circolare per le nostre strade e che a noi per nulla tranquillizzano (tutt’altro). È recente la notizia dell’ampliamento del site Pluto di Longare (VI) da parte dell’esercito statunitense, coperto da un fitto mistero governativo, che probabilmente ospiterà, come durante la guerra fredda, un deposito di “munizioni speciali”, ossia nucleari. La Spending Review di questo governo tecnico prevede piccoli tagli al personale militare, sì: ma solo per reinvestire in nuovi sistemi d’arma, come i cacciabombardieri nucleari F-35, e regalare al comparto Difesa e armamenti 23 miliardi di euro l’anno, garantendo gli affari miliardari del mercato di import/export e produzione di armi.

L’esercito nasce con due funzioni programmatiche: una di repressione interna di controllo della popolazione, ed una esterna di difesa dei “confini nazionali” ed espansione imperialista. In questi anni, a partire dalle presidenze statunitensi Bush, si sente spesso parlare di “esportazione della democrazia”: un’idea per cui l’Italia è in guerra e che è a dir poco aberrante, strumentale, ideologica. Essa cancella ogni complessità umana e sociale e afferma senza mezzi termini l’esistenza di modelli culturali superiori ad altri. Noi neghiamo la legittimità di concetti quali “missioni di pace” e “guerre umanitarie”. Basta sfogliare i libri di storia: fin da quando esiste la violenza istituzionalizzata, le classi dominanti hanno sempre dichiarato le guerre definendole umanitarie e per la pace. Forse che a forza di combatterle le guerre sono finite? O è giunta l’ora di mettere in discussione una buona volta la patria, la guerra, la gerarchia, il militarismo e tutti i suoi interpreti, mandanti ed esecutori?

Come antimilitarist* e pacifist*, ci opponiamo a tutto questo e ad ogni guerra, pratica brutale e fabbrica di morte, così come alle istituzioni militari in se stesse, prolungamento armato dello Stato, struttura di gerarchia e di violenza. Riteniamo che l’unica lotta possibile contro la guerra ed il militarismo debba mettere in discussione l’esistenza stessa delle istituzioni e delle strutture di dominio – Stato compreso –, da sempre indissolubilmente intrecciati, e che nulla hanno a che fare con la vita e la felicità delle persone, con la creatività propria dell’auto-organizzazione e dell’autogestione, con l’armonia e la complementarietà fra società e natura. Un’opposizione politica e morale alla guerra che non contempli una critica radicale serrata e coerente a ogni struttura di prevaricazione dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla donna, dell’umano sulla natura, ci pare monca e sterile.

Noi, naturalmente per nulla inclini ad accettare principi come obbedienza e comando, non possiamo tollerare che persone in divisa, col monopolio della forza dalla loro parte, istruiti e inquadrati a dovere, limitino la nostra libertà di cercare un’alternativa sociale pacifica, orizzontale e inclusiva, obbligandoci ad accettare l’ordine vigente. Noi, al contrario di loro, armi non ne abbiamo e non ne vogliamo avere. Noi, al contrario di loro, non vogliamo né obbedire né comandare.

Oggi siamo qui per dire qualcosa di sensato in mezzo a questa folle ricorrenza, e a ricordare a sindaco e autorità civili e militari che mandare le istituzioni a onorare i propri caduti è come mandare il macellaio a coronare di fiori le carcasse delle proprie bestie.

Azione diretta contro il militarismo e il potere in ogni sua forma

Per la e la disobbedienza e diserzione

Contro la gerarchia e il dominio

Per la giustizia sociale, per un mondo di liberi ed eguali

“Guerra significa obbedienza cieca, sconsiderata stupidità, brutale insensibilità, sfrenata distruzione e irresponsabile massacro” A. Berkman

CONTRO TUTTE LE GUERRE

CONTRO TUTTI GLI ESERCITI

Gruppo libertario La Formica

Clicca qui per l’evento facebook

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Come agire?

Nella giornata del 18 ottobre 2012, il popolo greco si è riversato nelle strade e nelle piazze del paese (Atene, Salonicco e Kavala i punti “caldi”), in occasione dello sciopero generale indetto dai principali sindacati ellenici, tra cui ADEDY, GSEE e PAME. L’edizione del Financial Times del giorno prima aveva rivelato l’imminente raggiungimento di un accordo (al massimo entro la prossima settimana) tra il governo di Samaras e i suoi creditori internazionali, la troika UE-BCE-FMI, sulle misure di austerità che produrranno importanti tagli e aumenti fiscali, per un totale di quasi 14 miliardi di dollari.                      

Ad Atene, i primi scontri si sono verificati in mattinata, nel momento in cui la polizia ha tentato di dividere il corteo, grande e compatto, il quale si stava dirigendo verso piazza Syntagma, ormai nota a chi segue da un po’ le lotte sociali nel paese ellenico. Qui sono partite le prime provocazioni da parte degli agenti, seguite da cariche e lancio di lacrimogeni. Le tensioni si sono accentuate nel primo pomeriggio, con violenti scontri tra polizia e manifestanti, alcuni dei quali avevano tentato di forzare i cordoni a difesa del Parlamento. E’ sempre del primo pomeriggio la notizia della morte di un manifestante di 66 anni, iscritto al sindacato PAME, vicino al partito comunista greco KKE, colpito da un infarto in piazza Syntagma in seguito all’inalazione dei gas lacrimogeni, utilizzati in enorme quantità dalla polizia. Il bilancio della giornata di ieri conta anche diversi feriti.

(Ricostruzione sintetica dei fatti sulla base di quanto riportato dal sito infoaut.org)

VIDEO

Rispetto alla situazione greca, consigliamo la visione del documentario “La Rivolta” (clicca qui per vedere il film su youtube), racconto della rivolta divampata in tutta la Grecia nel dicembre del 2008 a seguito dell’assassinio, da parte della polizia, di Alexandros Grigoropulos del quartiere Exarchia di Atene. La genesi e lo svolgimento della prima grande protesta di matrice libertaria sviluppatasi in Europa nel nuovo millennio, che ha coinvolto tutto il paese e ad oggi non è ancora sopita.

Quello di due giorni fa, avvenuto in concomitanza con la riunione dei leaders europei a Bruxelles e a cui farà seguito quello del prossimo 14 novembre, è stato il secondo sciopero generale proclamato in Grecia nelle ultime tre settimane, a dimostrazione della determinazione del popolo ellenico, spinto dalla disperazione e dalla rabbia ad opporsi senza soluzione di continuità alle politiche di austerity che ne affosseranno ulteriormente le condizioni di vita. Nelle scorse settimane abbiamo seguito da vicino anche le proteste che hanno avuto luogo in Spagna, mentre due giorni fa è stato assediato il Parlamento di Lisbona. La domanda che è lecito porsi, è in che cosa la situazione italiana sia diversa da quelle greca, spagnola, portoghese. E’ la nostra meno preoccupante? No, di certo. L’Italia, così come Grecia, Spagna e Portogallo, risulta tra i paesi nei quali la stretta delle politiche di austerità si fa giorno dopo giorno più pesante. Ciò nonostante le piazze e le strade italiane sono ancora vuote, caratterizzate da un sostanziale immobilismo rispetto a tali questioni. Il 27 ottobre è prevista una grande manifestazione, il No Monti Day, lanciata da varie realtà facenti riferimento al Comitato No Debito, rispetto alla quale nutriamo dei forti dubbi, a partire dalla scelta di prendere Roma come unico centro della protesta, la quale contribuisce a circoscriverla, anziché allargarla. I materiali che di seguito pubblichiamo potrebbero servire quali spunti di riflessione.

Considerazioni critiche circa il 27 ottobre (di Moreno Esposto)

Io sto a casa. Riflessioni di Fabio Malandra

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Incazzature

da A-Rivista Anarchica, (42), n. 7.

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27/28 ottobre 2012 – Pordenone // AUTOGESTIONE DEI TERRITORI E DEI SAPERI // Per una società ecologica, solidale e libertaria

 

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